sabato 22 agosto 2015

vita e morte nel mistero ...

In sintonia con il mistero globale di Cristo, 
Duns Scoto instaura una forma di perfetta analogia: 
come Cristo è morto ed è risorto, 
così Maria è morta risuscitata e assunta in cielo. 

Il fondamento della sua posizione 
è dato dal commento al passo del Genesi (3, 19): 
«sei polvere e in polvere ritornerai». 
Il valore dell’espressione è così generale 
che non ammette eccezione, neppure per Cristo e Maria. 

Per comprendere il pensiero del Dottor Sottile 
bisogna tenere presente la distinzione 
tra valore di legge naturale e valore di legge morale: 
la morte appartiene alla legge naturale, 
che non ammette eccezioni di sorta; 
il peccato originale, alla legge morale, che sopporta l’eccezione, 
come di fatto è avvenuto nella storia della salvezza. 

In questo modo si comprende anche la differenza 
dell’universalità del peccato con l’universalità della morte. 
Di per sé, la morte è una conseguenza del peccato originale, 
secondo Paolo (Rm 5, 12), cioè per demerito; in Cristo e Maria, invece, 
la morte risponde alla legge naturale e non alla legge morale, 
dal momento che essi erano esenti dal peccato d’origine e attuale, 
e quindi per privazione della gloria di per sé nel corpo.

Questo pensiero di Duns Scoto è da completarlo con quanto scrive: 
«E’ probabile che, alla fine dei tempi, gli ultimi uomini subiranno la morte 
come quella di Cristo e di sua Madre, e poi subito risorgeranno». 

La morte di Cristo e di Maria non viene mai vista 
come conseguenza del peccato, ma sempre come legge naturale, 
cui è soggetta metafisicamente la materialità del corpo. 

Si può concludere questo breve riferimento all’assunzione di Maria 
dicendo che se il Redentore ha preservato Maria dalla colpa originale, 
che è la pena maggiore del castigo divino, non l’ha liberata dalle pene minori, 
come sete, fame, dolore, passione e morte; 
e questo perché Maria potesse maggiormente meritare per sé e gli altri.

Anche in questo mistero Duns Scoto va contro corrente, 
difatti [secondo] gli autori della scolastica e tanti teologi, 
basandosi sempre sul testo di Paolo (Rm 5, 12): 
«la morte è entrata nel mondo per il peccato»; 
di conseguenza prima del peccato originale c’era l’immortalità. 

Il Maestro francescano, con la distinzione 
tra morte con valore naturale e morte come pena del peccato, 
è del parere che sia Cristo che Maria dovevano morire 
per legge naturale della materialità del proprio corpo. 

Difatti scrive, commentando il suddetto testo paolino (Rom 5, 12), 
che la morte è entrata sì nel mondo per il peccato, 
ma è stata preceduta dalla «potenza di morire». 

E nell’ipotesi assurda che Adamo avesse conservato lo stato di innocenza, 
la morte non sarebbe entrata nel mondo, 
ma con questo non sarebbe ipso facto immortale, 
perché la morte non appartiene allo stato di grazia, 
ma allo stato di natura, al massimo la morte sarebbe stata diversa, 
cioè non come punizione, ma come semplice passaggio alla vita eterna 
senza l’attuale senso punitivo. 

La morte perciò secondo Duns Scoto più che al peccato, 
anche se con esso è punizione, appartiene alla legge di natura del corpo 
che intrinsecamente e metafisicamente è mortale. 
Allora anche Maria è passata attraverso il dolce sonno della morte 
alla beata assunzione in cielo, come suo Figlio, 
anche se con modalità differenti, proprio in forza dei meriti 
de condigno che hanno acquistato per gli altri.

http://www.centrodunsscoto.it/articoli/Articoli_html/assunzione
%20al%20cielo%20della%20vergine%20maria.htm

venerdì 7 agosto 2015

verso la riconciliazione ... l'indissolubilità

L'esperienza quotidiana mostra, purtroppo, 
che chi ha fatto ricorso al divorzio 
ha per lo più in vista il passaggio ad una nuova unione, 
ovviamente non col rito religioso cattolico. 

Poiché si tratta di una piaga che va, al pari delle altre, 
intaccando sempre più largamente anche gli ambienti cattolici, 
il problema dev'essere affrontato con premura indilazionabile. 

I Padri Sinodali l'hanno espressamente studiato. 
La Chiesa, infatti, istituita per condurre a salvezza tutti gli uomini 
e soprattutto i battezzati, non può abbandonare a se stessi coloro che 
- già congiunti col vincolo matrimoniale sacramentale - 
hanno cercato di passare a nuove nozze. 
Perciò si sforzerà, senza stancarsi, 
di mettere a loro disposizione i suoi mezzi di salvezza.

Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati 

a ben discernere le situazioni. 
C'è infatti differenza tra quanti sinceramente 
si sono sforzati di salvare il primo matrimonio 
e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, 
e quanti per loro grave colpa hanno distrutto 
un matrimonio canonicamente valido. 
Ci sono infine coloro che hanno contratto 
una seconda unione in vista dell'educazione dei figli, 
e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza 
che il precedente matrimonio, 
irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido.


Insieme col Sinodo, esorto caldamente i pastori 

e l'intera comunità dei fedeli affinché aiutino i divorziati 
procurando con sollecita carità 
che non si considerino separati dalla Chiesa, 
potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, 
partecipare alla sua vita. 

Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, 
a frequentare il sacrificio della Messa, 
a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità 
e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, 
a educare i figli nella fede cristiana, 
a coltivare lo spirito e le opere di penitenza 
per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. 

La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, 
si dimostri madre misericordiosa 
e così li sostenga nella fede e nella speranza.


La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, 

fondata sulla Sacra Scrittura, 
di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. 

Sono essi a non poter esservi ammessi, 
dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita 
contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore 
tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. 
C'è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: 
se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, 
i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione 
circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio.


La riconciliazione nel sacramento della penitenza 

- che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - 
può essere accordata solo a quelli che, 
pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, 
sono sinceramente disposti ad una forma di vita 
non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. 

Ciò comporta, in concreto, 
che quando l'uomo e la donna, per seri motivi 
- quali, ad esempio, l'educazione dei figli - 
non possono soddisfare l'obbligo della separazione, 
«assumono l'impegno di vivere in piena continenza, 
cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» 
(Giovanni Paolo PP. II, 
7 [25 Ottobre 1980]: AAS 72 [1980] 1082).


Similmente il rispetto dovuto sia al sacramento del matrimonio 

sia agli stessi coniugi e ai loro familiari, 
sia ancora alla comunità dei fedeli proibisce ad ogni pastore, 
per qualsiasi motivo o pretesto anche pastorale, 
di porre in atto, a favore dei divorziati che si risposano, 
cerimonie di qualsiasi genere. 
Queste, infatti, darebbero l'impressione 
della celebrazione di nuove nozze sacramentali valide 
e indurrebbero conseguentemente in errore 
circa l'indissolubilità del matrimonio validamente contratto.


Agendo in tal modo, 

la Chiesa professa la propria fedeltà a Cristo e alla sua verità; 
nello stesso tempo si comporta con animo materno 
verso questi suoi figli, specialmente verso coloro che, 
senza loro colpa, sono stati abbandonati dal loro coniuge legittimo.


Con ferma fiducia essa crede che, 
anche quanti si sono allontanati dal comandamento del Signore 
ed in tale stato tuttora vivono, 
potranno ottenere da Dio la grazia della conversione e della salvezza, 
se avranno perseverato nella preghiera, 
nella penitenza e nella carità.

San Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, 84

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_exhortations/
documents/hf_jp-ii_exh_19811122_familiaris-consortio.html

domenica 2 agosto 2015

... per un fine necessario e onesto

È proprio dei commercianti dedicarsi agli scambi delle merci. 
Ora, come nota il Filosofo, ci sono due tipi di scambi. 

C'è uno scambio quasi naturale e necessario: 
in cui c'è la permuta tra merce e merce,
 oppure tra merce e denaro, per le necessità della vita. 
E tale scambio propriamente non appartiene ai commercianti, 
ma piuttosto ai capi famiglia e ai governanti, 
i quali hanno il compito di provvedere la loro casa, 
o il loro stato delle cose necessarie alla vita. 

Invece l'altra specie di scambio è tra denaro e denaro, 
o tra qualsiasi merce e denaro: 
non per provvedere alle necessità della vita, 
ma per ricavarne un guadagno. 
E questo tipo di traffico è proprio dei commercianti. 

Ebbene, secondo il Filosofo il primo tipo di scambi è degno di lode: 
poiché soddisfa a una esigenza naturale. 

Il secondo invece è giustamente vituperato: 
poiché di suo soddisfa la cupidigia del guadagno, 
che non conosce limiti, e tende all'infinito. 

Perciò, considerato in se stesso, 
il commercio ha una certa sconvenienza: 
in quanto nella sua natura non implica un fine onesto e necessario.

Sebbene però il guadagno, che è il fine del commercio, 
non implichi un elemento di onestà e di necessità, 
tuttavia non implica nella sua natura niente di peccaminoso e di immorale. 

Perciò niente impedisce di ordinare il guadagno 
a qualche fine necessario e onesto. 

E in tal caso il commercio è lecito. 
Come quando uno ordina il modesto guadagno 
cercato nel commercio al sostentamento della propria famiglia, 
o a soccorrere gli indigenti: 

oppure quando uno si dedica al commercio per l'utilità pubblica, 
cioè perché nella sua patria non manchino le cose necessarie; 
e quando si ha di mira il guadagno non come fine, 
ma come compenso del proprio lavoro.

[...]

I chierici non solo devono astenersi 
dalle cose che sono intrinsecamente cattive, 
ma anche da quelle che hanno l'apparenza del male. 

E questo si verifica nel commercio, 
sia perché è ordinato a un guadagno materiale, 
che i chierici devono disprezzare; 
sia per i molteplici vizi dei commercianti; 

poiché, come dice l'Ecclesiastico, 
"difficilmente il negoziante si libera dai peccati di lingua". 

E c'è una seconda ragione: 
perché il commercio lega troppo l'animo alle cose secolaresche, 
e quindi lo distoglie da quelle spirituali. 

Ecco perché l'Apostolo ammonisce: 
"Nessuno che militi per Dio s'impiccia degli affari del secolo". 

Ai chierici però è lecito il primo tipo di scambi, 
cioè quelli che sono ordinati, nella compravendita, 
alle necessità della vita.

San Tommaso d'Aquino, Summa Teologica, II-II, q.77, a.4