domenica 29 novembre 2015

L'amicizia fra disuguali: padre e figlio

Ci sono, poi, differenze anche nelle amicizie basate sulla superiorità: 
ciascuno dei due, infatti, pretende di ottenere di più, 
ma quando questo succede, l’amicizia si scioglie. 

Chi è più buono, infatti, pensa che gli si addica avere di più 
(giacché al buono si attribuisce di più); 
ma allo stesso modo pensa anche chi è più utile, 
giacché si dice che chi è inutile non dovrebbe avere una parte uguale; 
ne deriverà, infatti, un servizio gratuito e non un’amicizia, 
se i vantaggi tratti dall’amicizia non saranno rispondenti 
al valore dei benefici fatti. 

Si pensa, infatti, che, come in una società finanziaria 
ricevono di più quelli che hanno contribuito di più, 
così debba avvenire anche nell’amicizia. 

Ma chi è in condizioni di bisogno e di inferiorità pensa il contrario, 
giacché è proprio dell’amico buono soccorrere nel bisogno: 
che vantaggio c’è, dicono infatti, ad essere amico 
di un uomo di valore o di un potente, 
se non ci si può aspettare di ricavarne qualcosa? 

Sembra, dunque, che ciascuno dei due abbia una giusta pretesa, 
e che ciascuno debba ricavare dall’amicizia qualcosa più dell’altro, 
ma non della stessa cosa, bensì quello superiore più onore 
e quello bisognoso più guadagno: 

infatti, premio della virtù e della beneficenza è l’onore, 
mentre soccorso all’indigenza è il guadagno. 

Che le cose stiano così anche nelle costituzioni politiche è manifesto: 
infatti, non si onora colui che non procura alcun bene alla comunità, 
giacché a chi benefica la comunità si dà ciò che è comune, 
e l’onore è appunto bene comune. 

Infatti, non è possibile contemporaneamente 
arricchirsi a spese della comunità e riceverne onori. 

Nessuno, infatti, sopporta di avere di meno in tutti i casi: 
per conseguenza, a chi perde in ricchezza si attribuisce onore, 
e a chi ama ricevere si attribuisce ricchezza, 
giacché l’attribuzione secondo il merito 
ristabilisce l’uguaglianza e salva l’amicizia, come s’è detto. 

È, dunque, in questo modo che devono regolare i loro rapporti gli amici disuguali, 
e bisogna che chi ha ricevuto vantaggi in denaro o in virtù 
renda, in cambio, onore, restituendo quello che può. 

Infatti, ciò che l’amicizia richiede è il contraccambio possibile, 
non quello che sarebbe adeguato al merito, 
giacché ciò non sarebbe neppure possibile in tutti i casi, 
come nel caso degli onori da tributarsi agli dèi ed ai genitori: 

nessuno, infatti, potrebbe mai rendere loro il contraccambio adeguato, 
ma chi li venera secondo le sue possibilità è ritenuto uomo virtuoso. 

Per questo si riterrà che ad un figlio non è lecito ripudiare il padre, 
mentre al padre è lecito ripudiare il figlio: questi, infatti, essendo in debito, 
deve contraccambiare, ma, qualunque cosa un figlio faccia, 
non può fare nulla che uguagli il valore di ciò che ha ricevuto, 
cosicché rimane sempre debitore. 

Ai creditori, invece, e quindi al padre, è lecito rimettere un debito. 

Nello stesso tempo, però, si ritiene che nessuno ripudia un figlio 
se questi non è di una perversità eccessiva, giacché, 
anche a prescindere dall’amicizia naturale, 
è umano non rifiutare l’assistenza a un figlio. 

Sarà, invece, il figlio, se è malvagio, 
che potrà evitare o non preoccuparsi molto di aiutare il padre: 
infatti, i più vogliono ricevere del bene, ma evitano di farlo, 
perché non lo considerano vantaggioso. 

Quanto detto sull’argomento sia sufficiente.

Aristotele, Etica Nicomachea, Libro VIII
http://www.filosofico.net/eticaanicomaco8.htm

martedì 17 novembre 2015

azione internazionale: evitare la guerra

È chiaro pertanto che dobbiamo con ogni impegno 
sforzarci per preparare quel tempo nel quale, mediante l'accordo delle nazioni, 
si potrà interdire del tutto qualsiasi ricorso alla guerra. 

Questo naturalmente esige che venga istituita un'autorità pubblica universale, 
da tutti riconosciuta, la quale sia dotata di efficace potere 
per garantire a tutti i popoli sicurezza, 
osservanza della giustizia e rispetto dei diritti.

Ma prima che questa auspicabile autorità possa essere costituita, 
è necessario che le attuali supreme istanze internazionali 
si dedichino con tutto l'impegno alla ricerca dei mezzi più idonei 
a procurare la sicurezza comune. 

La pace deve sgorgare spontanea dalla mutua fiducia delle nazioni, 
piuttosto che essere imposta ai popoli dal terrore delle armi. 
Pertanto tutti debbono impegnarsi con alacrità 
per far cessare finalmente la corsa agli armamenti.

Perché la riduzione degli armamenti incominci realmente, 
non deve certo essere fatta in modo unilaterale, 
ma con uguale ritmo da una parte e dall'altra, 
in base ad accordi comuni e con l'adozione di efficaci garanzie.

Non sono frattanto da sottovalutare gli sforzi già fatti 
e che si vanno tuttora facendo per allontanare il pericolo della guerra. 

Va piuttosto incoraggiata la buona volontà di tanti 
che pur gravati dalle ingenti preoccupazioni del loro altissimo ufficio, 
mossi dalla gravissima responsabilità da cui si sentono vincolati, 
si danno da fare in ogni modo per eliminare la guerra, 
di cui hanno orrore pur non potendo prescindere 
dalla complessa realtà delle situazioni. 

Bisogna rivolgere incessanti preghiere a Dio 
affinché dia loro la forza di intraprendere con perseveranza 
e condurre a termine con coraggio quest'opera 
del più grande amore per gli uomini, 
per mezzo della quale si costruisce virilmente l'edificio della pace.

Tale opera esige oggi certamente che essi dilatino la loro mente 
e il loro cuore al di là dei confini della propria nazione, 
deponendo ogni egoismo nazionale
ed ogni ambizione di supremazia su altre nazioni, 
e nutrendo invece un profondo rispetto verso tutta l'umanità, 
avviata ormai così faticosamente verso una maggiore unità.

Per ciò che riguarda i problemi della pace e del disarmo, 
bisogna tener conto degli studi approfonditi, 
già coraggiosamente e instancabilmente condotti 
e dei consessi internazionali che trattarono questi argomenti 
e considerarli come i primi passi verso la soluzione di problemi così gravi; 

con maggiore insistenza ed energia 
dovranno quindi essere promossi in avvenire, 
al fine di ottenere risultati concreti. 

Stiano tuttavia bene attenti gli uomini 
a non affidarsi esclusivamente agli sforzi di alcuni, 
senza preoccuparsi minimamente dei loro propri sentimenti. 

I capi di Stato, infatti, i quali sono mallevadori del bene comune 
delle proprie nazioni e fautori insieme del bene della umanità intera, 
dipendono in massima parte dalle opinioni e dai sentimenti delle moltitudini. 

È inutile infatti che essi si adoperino con tenacia a costruire la pace, 
finché sentimenti di ostilità, di disprezzo e di diffidenza, 
odi razziali e ostinate ideologie dividono gli uomini, 
ponendoli gli uni contro gli altri. 

Di qui la estrema, urgente necessità di una rinnovata educazione degli animi 
e di un nuovo orientamento nell'opinione pubblica. 

Coloro che si dedicano a un'opera di educazione, specie della gioventù, 
e coloro che contribuiscono alla formazione della pubblica opinione,
 considerino loro dovere gravissimo inculcare negli animi di tutti 
sentimenti nuovi, ispiratori di pace. 

E ciascuno di noi deve adoperarsi per mutare il suo cuore, 
aprendo gli occhi sul mondo intero 
e su tutte quelle cose che gli uomini possono compiere 
insieme per condurre l'umanità verso un migliore destino.

Né ci inganni una falsa speranza. 

Se non verranno in futuro conclusi stabili e onesti trattati di pace universale, 
rinunciando ad ogni odio e inimicizia, 
L'umanità che, pur avendo compiuto mirabili conquiste 
nel campo scientifico, si trova già in grave pericolo, 
sarà forse condotta funestamente a quell'ora, 
in cui non potrà sperimentare altra pace che la pace terribile della morte.

La Chiesa di Cristo nel momento in cui, 
posta in mezzo alle angosce del tempo presente, pronuncia tali parole, 
non cessa tuttavia di nutrire la più ferma speranza. 

Agli uomini della nostra età essa intende presentare con insistenza, 
sia che l'accolgano favorevolmente, o la respingano come importuna, 
il messaggio degli apostoli: 

« Ecco ora il tempo favorevole » per trasformare i cuori, 
«ecco ora i giorni della salvezza».

Gaudium et Spes, Concilio Vaticano II, 82

http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/
documents/vat-ii_const_19651207_gaudium-et-spes_it.html

domenica 15 novembre 2015

oltre i limiti della ragione ...?


Mediante la giustizia originale 
la ragione dominava perfettamente le potenze inferiori dell'anima, 
ed essa stessa era sublimata dalla sua sottomissione a Dio. 

Ma la giustizia originale fu distrutta, 
come abbiamo detto, dal peccato di Adamo. 

E quindi tutte le facoltà dell'anima 
rimangono come destituite del proprio ordine, 
dal quale erano indirizzate naturalmente alla virtù: 
e codesta destituzione si dice che è un ferimento della natura. 

Ora, quattro sono le potenze dell'anima 
che possono essere sede di virtù, come sopra abbiamo visto: 
la ragione, in cui risiede la prudenza; 
la volontà, in cui si trova la giustizia; 
l'irascibile, sede della fortezza; 
il concupiscibile, sede della temperanza. 

Perciò dal momento che la ragione è destituita del suo ordine alla verità, 
si ha la ferita dell'ignoranza; 
con la perdita dell'ordine che la volontà sperimenta per il bene, 
si ha la ferita della malizia; 

privando l'irascibile del suo ordine alle cose ardue, 
si ha la ferita della fragilità; 
e togliendo alla concupiscenza il suo ordine al bene dilettevole
regolato dalla ragione, 
si ha la ferita della concupiscenza.

Quindi sono quattro le ferite inflitte 
a tutta la natura umana dal peccato di Adamo. 

Siccome però l'inclinazione al bene 
viene menomata in ciascuno anche dal peccato attuale, 
come sopra abbiamo dimostrato, 
queste quattro piaghe accompagnano pure gli altri peccati; 

col peccato, cioè, la ragione si offusca, 
specialmente in campo pratico; 
la volontà diviene restia al bene; 
cresce l'interna difficoltà a ben operare; 
e la concupiscenza si accende.

Niente impedisce che l'effetto di un peccato sia causa di un altro. 

Infatti dal momento che l'anima viene disordinata da un peccato, 
più facilmente è inclinata a peccare.

Malizia qui non sta a indicare il peccato, 
ma una certa predisposizione della volontà al male, 
secondo l'espressione della Genesi: 
"I sensi e i pensieri del cuore umano inclinano 
al male sin dall'adolescenza".

Come abbiamo già detto, 
la concupiscenza è naturale per l'uomo in quanto sottostà alla ragione. 
Ma quando passa i limiti della ragione è contro natura.

In senso lato si può chiamare fragilità qualsiasi passione, 
in quanto debilita le forze dell'anima e ostacola la ragione. 
Ma Beda qui prende la fragilità in senso stretto, 
come contrapposta alla fortezza, propria dell'irascibile.

Il testo di S. Agostino citato nella difficoltà include 
le tre piaghe che si riscontrano nelle potenze appetitive, 
e cioè la malizia, la fragilità e la concupiscenza: 
infatti da esse dipende che uno non tenda con facilità al bene. 
L'errore, poi, e il dolore sono piaghe conseguenti: 
poiché uno si addolora per il fatto che si sente debole 
di fronte alle proprie concupiscenze.


San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, I-II, q. 85, a. 3
http://www.genesibiblica.eu/docu/summa-85-peccato.html

domenica 8 novembre 2015

rivendicò ... con scandalo del re

S. Tommaso di Canterbury 
rivendicò i beni della Chiesa con scandalo del re.
[...]

Per i beni temporali bisogna distinguere. 

Essi infatti possono essere nostri, 
oppure sono a noi affidati per gli altri, 
cioè come i beni della Chiesa sono affidati ai prelati, 
e come i beni collettivi sono affidati ai vari ufficiali dello stato. 

Ora, la conservazione di codesti beni, come quella di un deposito, 
impegna strettamente coloro cui sono affidati. 
Perciò essi non si possono sacrificare per evitare scandali: 
come non vanno sacrificati gli altri beni che sono di necessità per la salvezza.

Invece i beni di cui siamo padroni, 
per motivi di scandalo in certi casi dobbiamo sacrificarli, 
cedendoli o non rivendicandoli, e in altri casi non dobbiamo cederli. 

Infatti, se lo scandalo nasce dall'ignoranza o dalla fragilità altrui, 
riducendosi esso allo scandalo dei pusilli, 
come sopra abbiamo visto, 
allora i beni temporali o vanno sacrificati del tutto, 
oppure si deve ovviare allo scandalo diversamente, 
cioè mediante un'ammonizione. 

Di qui l'insegnamento di S. Agostino: 

"Devi cedere in modo da non danneggiare, 
per quanto è possibile, né te stesso né l'altro. 
E nel negargli ciò che lui vuole devi indicargli le norme della giustizia: 
e allora gli darai di più, correggendone le ingiuste pretese".

Talora invece lo scandalo nasce dalla malizia, 
ed è uno scandalo farisaico. 
Ebbene, per coloro che suscitano scandali in tal modo 
non si devono sacrificare i beni temporali; 
perché nuocerebbe al bene comune, 
prestando ai malvagi occasioni di rapina; 
e nuocerebbe agli stessi profittatori, 
i quali ritenendosi i beni altrui si ostinerebbero nel peccato. 

Perciò S. Gregorio afferma: 
"Tra coloro che ci tolgono i beni temporali 
alcuni sono semplicemente da tollerarsi; 
altri invece sono da affrontarsi a norma di giustizia; 
non solo per la preoccupazione di difendere i nostri beni, 
ma anche perché i profittatori non rovinino se stessi".

Se di frequente si permettesse ai malvagi 
di mettere le mani sui beni altrui, 
ne verrebbe menomata la verità della vita e della giustizia. 
Perciò non per qualsiasi scandalo si devono sacrificare i beni temporali.

L'Apostolo non intendeva consigliare 
di astenersi del tutto dal cibo per evitare lo scandalo; 
perché nutrirsi è necessario per vivere. 
Ma per evitare lo scandalo va sacrificato un determinato cibo, 
come risulta dalle sue parole: 
"Non voglio più mangiare carne mai e poi mai, 
per non dar scandalo al mio fratello".

Secondo S. Agostino, quel comando del Signore 
va inteso nel senso di una predisposizione d'animo: 
Un uomo cioè dev'essere più pronto a subire un'ingiustizia, o una frode, 
che a ricorrere a un tribunale, se ciò è opportuno. 
Talora però questo non è opportuno, come abbiamo dimostrato. 
- Lo stesso si dica delle parole dell'Apostolo.

Lo scandalo che l'Apostolo voleva evitare 
dipendeva dall'ignoranza dei pagani, 
che non conoscevano quest'uso. 
Perciò per un certo tempo bisognava farne a meno, 
perché prima potessero capire che questa era una cosa doverosa. 
- Per lo stesso motivo la Chiesa si astiene dall'esigere le decime 
nei luoghi dove non c'è l'uso di pagarle.

San Tommaso D'Aquino, Somma teologica, II-II, q. 43, a. 8