martedì 18 ottobre 2016

apertura alla vita nel matrimonio


La fecondità è un dono, un fine del matrimonio; infatti l'amore coniugale tende per sua natura ad essere fecondo. Il figlio non viene ad aggiungersi dall'esterno al reciproco amore degli sposi; sboccia nel cuore stesso del loro mutuo dono, di cui è frutto e compimento. Perciò la Chiesa, che « sta dalla parte della vita », insegna che « qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto per sé alla trasmissione della vita ».

« Tale dottrina, più volte esposta dal Magistero della Chiesa, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l'uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell'atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo ».

 Chiamati a donare la vita, gli sposi partecipano della potenza creatrice e della paternità di Dio. « Nel compito di trasmettere la vita umana e di educarla, che deve essere considerato come la loro propria missione, i coniugi sanno di essere cooperatori dell'amore di Dio Creatore e come suoi interpreti. E perciò adempiranno il loro dovere con umana e cristiana responsabilità ».

 Un aspetto particolare di tale responsabilità riguarda la regolazione della procreazione. Per validi motivi gli sposi possono voler distanziare le nascite dei loro figli. Devono però verificare che il loro desiderio non sia frutto di egoismo, ma sia conforme alla giusta generosità di una paternità responsabile. Inoltre regoleranno il loro comportamento secondo i criteri oggettivi della moralità:

« Quando si tratta di comporre l'amore coniugale con la trasmissione responsabile della vita, il carattere morale del comportamento non dipende solo dalla sincera intenzione e dalla valutazione dei motivi, ma va determinato da criteri oggettivi, che hanno il loro fondamento nella natura stessa della persona umana e dei suoi atti, criteri che rispettano, in un contesto di vero amore, l'integro senso della mutua donazione e della procreazione umana; e tutto ciò non sarà possibile se non venga coltivata con sincero animo la virtù della castità coniugale ».

 « Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l'atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore e il suo ordinamento all'altissima vocazione dell'uomo alla paternità ».

 La continenza periodica, i metodi di regolazione delle nascite basati sull'auto-osservazione e il ricorso ai periodi infecondi sono conformi ai criteri oggettivi della moralità. Tali metodi rispettano il corpo degli sposi, incoraggiano tra loro la tenerezza e favoriscono l'educazione ad una libertà autentica. Al contrario, è intrinsecamente cattiva « ogni azione che, o in previsione dell'atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione ».

« Al linguaggio nativo che esprime la reciproca donazione totale dei coniugi, la contraccezione impone un linguaggio oggettivamente contraddittorio, quello cioè del non donarsi all'altro in totalità: ne deriva non soltanto il positivo rifiuto all'apertura alla vita, ma anche una falsificazione dell'interiore verità dell'amore coniugale, chiamato a donarsi in totalità personale. [...] La differenza antropologica e al tempo stesso morale, che esiste tra la contraccezione e il ricorso ai ritmi temporali [...], coinvolge in ultima analisi due concezioni della persona e della sessualità umana tra loro irriducibili ».

« Sia chiaro a tutti che la vita dell'uomo e il compito di trasmetterla non sono limitati solo a questo tempo e non si possono commisurare e capire in questo mondo soltanto, ma riguardano sempre il destino eterno degli uomini ».

CCC, 2366-2371
http://www.vatican.va/archive/catechism_it/p3s2c2a6_it.htm 

lunedì 10 ottobre 2016

fede e opere: segno, frutto ... e merito


4.6 La certezza della salvezza

34. Insieme confessiamo che i credenti possono fare affidamento sulla misericordia e sulle promesse di Dio. Anche nella loro debolezza e nelle molteplici minacce che mettono in pericolo la loro fede, essi possono contare, in forza della morte e della resurrezione di Cristo, sulla promessa efficace della grazia di Dio nella Parola e nel sacramento ed essere così certi di questa grazia.

35. I riformatori hanno accentuato in modo particolare il fatto che, nella prova, il credente non deve rivolgere lo sguardo a se stesso, ma a Cristo e fare affidamento in modo totale soltanto su di lui. Riponendo così la sua fiducia nella promessa di Dio, egli è certo della sua salvezza, mentre non ne è mai certo se guarda a se stesso.

36. I cattolici possono condividere l’orientamento dei riformatori che consiste nel fondare la fede sulla realtà oggettiva della promessa di Cristo, a prescindere dalla personale esperienza e nel confidare unicamente nella promessa di Cristo (cfr. Mt 16, 19 ; 18, 18). Con il Concilio Vaticano II, i cattolici affermano che credere significa abbandonarsi interamente a Dio, che ci libera dalle tenebre del peccato e della morte e ci desta alla vita eterna. In questo senso l’uomo non può credere in Dio e contemporaneamente ritenere che la sua promessa non è affidabile. Nessuno può dubitare della misericordia di Dio e del merito di Cristo, allorché ciascuno può temere per la sua salvezza se considera le sue debolezze e le sue mancanze. Il credente, pur conoscendo i suoi fallimenti, può essere certo che Dio vuole la sua salvezza (cfr. fonti del cap. 4.6).

4.7 Le buone opere del giustificato

37. Insieme confessiamo che le buone opere — una vita cristiana nella fede nella speranza e nell’amore — sono la conseguenza della giustificazione e ne rappresentano i frutti. Quando il giustificato vive in Cristo e agisce nella grazia che ha ricevuto, egli dà, secondo un modo di esprimersi biblico, dei buoni frutti. Tale conseguenza della giustificazione è per il cristiano anche un dovere da assolvere, in quanto egli lotta contro il peccato durante tutta la sua vita ; per questo motivo Gesù e gli scritti apostolici esortano i cristiani a compiere opere d’amore.

38. Secondo la concezione cattolica, le buone opere, compiute per mezzo della grazia e dell’azione dello Spirito Santo, contribuiscono ad una crescita nella grazia, di modo che la giustizia ricevuta da Dio è preservata e la comunione con Cristo approfondita. Quando i cattolici affermano il «carattere meritorio» delle buone opere, essi intendono con ciò che, secondo la testimonianza biblica, a queste opere è promesso un salario in cielo. La loro intenzione è di sottolineare la responsabilità dell’uomo nei confronti delle sue azioni, senza contestare con ciò il carattere di dono delle buone opere, e tanto meno negare che la giustificazione stessa resta un dono immeritato della grazia.

39. Anche nei luterani si riscontra il concetto di una preservazione della grazia e di una crescita nella grazia e nella fede. Anzi, essi sottolineano che la giustizia in quanto accettazione da parte di Dio e partecipazione alla giustizia di Cristo, è sempre perfetta. Al tempo stesso affermano che i suoi effetti possono crescere nella vita cristiana. Considerando le buone opere del cristiano come «frutti» e «segni» della giustificazione e non «meriti» che gli sono propri, essi comprendono, allo stesso modo, conformemente al Nuovo Testamento, la vita eterna come «salario» immeritato nel senso del compimento della promessa di Dio ai credenti (cfr. Fonti del cap. 4.7).

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/documents/
rc_pc_chrstuni_doc_31101999_cath-luth-joint-declaration_it.html#_ftn8



martedì 4 ottobre 2016

La luce nella città degli uomini (2)

54. Assimilata e approfondita in famiglia, 
la fede diventa luce per illuminare tutti i rapporti sociali. 

Come esperienza della paternità di Dio 
e della misericordia di Dio, 
si dilata poi in cammino fraterno. 

Nella "modernità" si è cercato di costruire 
la fraternità universale tra gli uomini, 
fondandosi sulla loro uguaglianza. 

A poco a poco, però, abbiamo compreso che questa fraternità, 
privata del riferimento a un Padre comune 
quale suo fondamento ultimo, 
non riesce a sussistere. 

Occorre dunque tornare alla vera radice della fraternità. 
La storia di fede, fin dal suo inizio, 
è stata una storia di fraternità, anche se non priva di conflitti. 

Dio chiama Abramo ad uscire dalla sua terra 
e gli promette di fare di lui un’unica grande nazione, 
un grande popolo, sul quale riposa la Benedizione divina (cfr Gen 12,1-3). 

Nel procedere della storia della salvezza, 
l’uomo scopre che Dio vuol far partecipare tutti, 
come fratelli, all'unica benedizione, 
che trova la sua pienezza in Gesù, affinché tutti diventino uno. 

L’amore inesauribile del Padre ci viene comunicato, 
in Gesù, anche attraverso la presenza del fratello. 

La fede ci insegna a vedere 
che in ogni uomo c’è una benedizione per me, 
che la luce del volto di Dio 
mi illumina attraverso il volto del fratello. 

Quanti benefici ha portato 
lo sguardo della fede cristiana alla città degli uomini 
per la loro vita comune! 

Grazie alla fede abbiamo capito 
la dignità unica della singola persona, 
che non era così evidente nel mondo antico. 

Nel secondo secolo, il pagano Celso 
rimproverava ai cristiani quello che a lui pareva 
un’illusione e un inganno: 

pensare che Dio avesse creato il mondo per l’uomo, 
ponendolo al vertice di tutto il cosmo. 

Si chiedeva allora: 
« Perché pretendere che [l’erba] cresca per gli uomini, 
e non meglio per i più selvatici degli animali senza ragione? », 

« Se guardiamo la terra dall’alto del cielo, 
che differenza offrirebbero le nostre attività 
e quelle delle formiche e delle api? ». 

Al centro della fede biblica, 
c’è l’amore di Dio, la sua cura concreta per ogni persona, 
il suo disegno di salvezza che abbraccia tutta l’umanità 
e l’intera creazione e che raggiunge il vertice 
nell’Incarnazione, Morte e Risurrezione di Gesù Cristo. 

Quando questa realtà viene oscurata, 
viene a mancare il criterio per distinguere 
ciò che rende preziosa e unica la vita dell’uomo. 

Egli perde il suo posto nell’universo, 
si smarrisce nella natura, 
rinunciando alla propria responsabilità morale, 
oppure pretende di essere arbitro assoluto, 
attribuendosi un potere di manipolazione senza limiti.

55. La fede, inoltre, nel rivelarci l’amore di Dio Creatore, 
ci fa rispettare maggiormente la natura, 
facendoci riconoscere in essa una grammatica da Lui scritta 
e una dimora a noi affidata perché sia coltivata e custodita; 

ci aiuta a trovare modelli di sviluppo 
che non si basino solo sull'utilità e sul profitto, 
ma che considerino il creato come dono, 
di cui tutti siamo debitori; 

ci insegna a individuare forme giuste di governo, 
riconoscendo che l’autorità viene da Dio 
per essere al servizio del bene comune. 

La fede afferma anche la possibilità del perdono, 
che necessita molte volte di tempo, 
di fatica, di pazienza e di impegno; 

perdono possibile se si scopre che il bene 
è sempre più originario e più forte del male, 
che la parola con cui Dio afferma la nostra vita 
è più profonda di tutte le nostre negazioni. 

Anche da un punto di vista semplicemente antropologico, 
d’altronde, l’unità è superiore al conflitto; 
dobbiamo farci carico anche del conflitto,
 ma il viverlo deve portarci a risolverlo, a superarlo, 
trasformandolo in un anello di una catena, in uno sviluppo verso l’unità.

Quando la fede viene meno, 
c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere 
vengano meno, come ammoniva il poeta T. S. Eliot: 

« Avete forse bisogno che vi si dica 
che perfino quei modesti successi / 
che vi permettono di essere fieri di una società educata / 
difficilmente sopravviveranno alla fede 
a cui devono il loro significato? ». 

Se togliamo la fede in Dio dalle nostre città, 
si affievolirà la fiducia tra di noi, 
ci terremmo uniti soltanto per paura, 
e la stabilità sarebbe minacciata. 

La Lettera agli Ebrei afferma: 
« Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. 
Ha preparato infatti per loro una città » (Eb 11,16). 

L’espressione "non vergognarsi" 
è associata a un riconoscimento pubblico. 

Si vuol dire che Dio confessa pubblicamente, 
con il suo agire concreto, la sua presenza tra noi, 
il suo desiderio di rendere saldi i rapporti tra gli uomini. 

Saremo forse noi a vergognarci di chiamare Dio il nostro Dio? 
Saremo noi a non confessarlo come tale nella nostra vita pubblica, 
a non proporre la grandezza della vita comune 
che Egli rende possibile? 

La fede illumina il vivere sociale; 
essa possiede una luce creativa 
per ogni momento nuovo della storia, 
perché colloca tutti gli eventi in rapporto 
con l’origine e il destino di tutto 
nel Padre che ci ama.

Papa Francesco, Lumen Fidei (29 Giugno 2013), n° 54-55
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/
papa-francesco_20130629_enciclica-lumen-fidei.html