martedì 18 aprile 2017

l'arte: un abito operativo

L'arte non è altro che la retta norma 
per compiere determinate opere. 

E il bene in questi casi non consiste nel fatto che il volere umano 
si comporta in una data maniera, 
ma nel fatto che è buona la cosa stessa prodotta. 

Infatti non torna a lode dell'artefice come tale 
l'intenzione con la quale egli compie la sua opera, 
ma solo la qualità dell'opera che egli compie.
 
Perciò, propriamente parlando, 
l'arte è un abito operativo.
 
E tuttavia in qualcosa coincide con gli abiti speculativi: 
poiché anche gli abiti speculativi hanno di mira 
la situazione delle cose conosciute
e non il comportamento della volontà umana nei loro riguardi. 

Infatti, purché il geometra faccia una dimostrazione vera, 
non importa il suo stato d'animo, se cioè è contento o adirato: 
e così non interessa nel caso di un artista o di un artigiano, 
come si è detto [a. 2, ad 3]. 

Perciò le arti hanno natura di virtù come gli abiti speculativi: 
nel senso cioè che né le arti né gli abiti speculativi 
rendono buona l'opera quanto all'uso, 
poiché questo è il compito proprio delle virtù morali, 
ma solo quanto alla capacità di ben operare

Soluzione delle difficoltà: 

1. Quando chi possiede un mestiere compie un'opera difettosa 
fa un'opera non degna, ma indegna della sua arte: 
come anche quando uno mente conoscendo la verità, 
il suo dire non è secondo la scienza, ma contrario ad essa.
 
Come quindi la scienza è sempre legata al bene
come si è detto [ib.], così anche l'arte
e da questo lato viene denominata virtù.
 
Non raggiunge però la perfetta natura di virtù 
perché non rende buono anche l'uso, 
per il quale si richiede qualche altra cosa; 
sebbene non ci possa essere il buon uso [di una facoltà] senza l'arte. 

2. Perché un uomo usi bene della sua arte 
si richiede che abbia la volontà retta, 
e questa raggiunge la sua perfezione con la virtų morale: 
per questo il Filosofo parla di virtù, morale si intende, dell'arte, 
in quanto il suo buon uso richiede delle virtù morali. 
Infatti è chiaro che la giustizia, che dà rettitudine alla volontà, 
farà sì che un artigiano sia portato a compiere un'opera genuina.
 
3. Anche nell'attività speculativa ci sono degli esercizi 
che si presentano come opere: 
p. es. la costruzione di un sillogismo, di un buon discorso, 
oppure le operazioni di numerazione o di misurazione. 

Perciò tutti gli abiti speculativi che sono ordinati 
a queste opere del raziocinio, per una certa somiglianza 
vengono dette arti, però liberali: 
per distinguerle da quelle arti che sono ordinate 
a opere da compiersi mediante il corpo, 
e che sono in qualche modo servili, 
in quanto il corpo è sottoposto all'anima come schiavo, 
mentre l'uomo in forza dell'anima è libero. 

Invece le scienze che non sono ordinate ad alcuna opera 
vengono dette semplicemente scienze, non arti. 

Per il fatto poi che le arti liberali sono più nobili 
non è detto che ad esse convenga maggiormente il carattere di arte.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica I-II, q. 57, a. 3 

mercoledì 5 aprile 2017

peccato vs virtù


Il peccato sta alla virtù 
come un atto cattivo sta a un abito buono. 

Ma un abito non si trova nell'anima 
come la forma in un essere di ordine naturale. 
Una forma naturale, infatti, 
produce per necessità l'operazione rispettiva: 
per cui l'atto della forma contraria non è compatibile 
con una data forma naturale: 

col calore, p. es., non è compatibile l'atto del raffreddamento, 
e con la levità non è possibile il moto verso il basso, 
se non per la violenza di una causa esterna.
 
L'abito invece non produce la sua operazione nell'anima per necessità, 
ma l'uomo "se ne serve quando vuole" 
[cf. Averroè, De anima 3, 18]. 

Per cui rimanendo l'abito in lui, 
l'uomo può non usarne, o può compiere un atto contrario.
 
In questo modo dunque, pur possedendo una virtù, 
uno può passare all'atto contrario del peccato.
 
L'atto del peccato quindi, confrontato con la virtù 
in quanto questa è un abito, non può corromperla, se è un atto unico: 
come infatti un abito non può essere generato da un unico atto, 
così non può esserne distrutto, secondo le spiegazioni date 
[q. 63, a. 2, ad 2]. 

Se invece l'atto peccaminoso viene confrontato 
con la causa delle virtù, allora è possibile che certe virtù 
siano distrutte da un solo atto peccaminoso. 

Infatti ogni peccato mortale è contrario alla carità, 
radice di tutte le virtù infuse in quanto virtù: 
perciò da un solo peccato mortale, con la perdita della carità, 
vengono distrutte conseguentemente tutte le virtù infuse, 
sotto l'aspetto di virtù. 

E dico questo a motivo della fede e della speranza, 
i cui abiti informi rimangono dopo il peccato mortale; 
ma allora non sono virtù. 

Invece il peccato veniale, che non è contrario alla carità 
e non la esclude, non esclude neppure le altre virtù.
 
Quanto poi alle virtù acquisite, 
esse non vengono mai distrutte da un unico atto di qualsiasi peccato.
 
Così dunque il peccato mortale non è compatibile con le virtù infuse; 
è però compatibile con le virtù acquisite. 
Invece il peccato veniale è compatibile con le une e con le altre. 

1. Il peccato non è direttamente contrario alla virtù, ma al suo atto. 
Esso perciò è incompatibile con l'atto della virtù, 
ma può coesistere con il suo abito. 

2. Il vizio è direttamente contrario alla virtù, 
come il peccato all'atto virtuoso. 
Perciò il vizio esclude la virtù, come il peccato ne esclude l'atto. 

3. Le virtù naturali agiscono per necessità
finché dunque la virtù è integra, 
non si può mai riscontrare un peccato nell'operazione. 

Invece le virtù dell'anima non producono i loro atti per necessità
per cui il paragone non regge.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica I-II, q. 71, a. 4

lunedì 3 aprile 2017

in modo proporzionale


È impossibile che si predichi qualcosa di Dio 
e delle creature in senso univoco.
 
Poiché ogni effetto 
che non è proporzionato alla potenza della causa agente 
ritrae una somiglianza dell'agente 
non secondo la stessa natura, ma imperfettamente; 

in maniera che quanto negli effetti si trova diviso e molteplice, 
nella causa è semplice e uniforme: 
come il sole mediante un'unica energia produce 
nelle cose di quaggiù forme molteplici e svariate. 

Allo stesso modo, come si è detto [a. prec.], 
tutte le perfezioni delle cose, 
che nelle creature sono frammentarie e molteplici, 
in Dio preesistono in semplice unità. 

Così dunque, quando un nome che indica perfezione 
viene applicato a una creatura, 
significa quella perfezione come distinta dalle altre, 
secondo la nozione espressa dalla definizione: 

p. es., quando il termine sapiente lo attribuiamo all'uomo, 
indichiamo una perfezione distinta 
dall'essenza dell'uomo, dalla sua potenza, 
dalla sua esistenza e da altre cose del genere. 

Quando invece attribuiamo questo nome a Dio 
non intendiamo indicare qualcosa di distinto 
dalla sua essenza, dalla sua potenza e dal suo essere. 

Per conseguenza, 
se è applicato all'uomo, il termine sapiente circoscrive, in qualche modo, 
e racchiude la qualità che esprime; 
non così invece se è applicato a Dio: 
perché [in tal caso] lascia la perfezione indicata senza delimitazione, 
e nell'atto di oltrepassare il significato del nome. 

Quindi è chiaro che il termine sapiente si dice di Dio e dell'uomo 
non secondo l'identico concetto [formale]. 

E così è di tutti gli altri nomi. 

Quindi nessun nome viene attribuito in senso univoco 
a Dio e alle creature.

 Ma nemmeno in senso del tutto equivoco, 
come alcuni hanno affermato. 

Poiché in tal modo nulla si potrebbe conoscere o dimostrare 
intorno a Dio partendo dalle creature, 
ma si cadrebbe continuamente nel sofisma chiamato 
"equivocazione". 

E ciò sarebbe in contrasto sia con i filosofi, 
i quali dimostrano molte cose su Dio, sia con l'Apostolo, 
il quale dice [Rm 1, 20] che "le sue perfezioni invisibili 
possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute". 

Si deve dunque concludere che tali termini 
vengono affermati di Dio e delle creature in modo analogico, 
cioè proporzionale. 

E ciò avviene in due maniere: 

o perché più termini dicono ordine a un termine unico 
[originario e inderivato] 
- come sano si dice della medicina e dell'orina, 
inquantoché l'una e l'altra dicono un certo ordine 
e un rapporto alla sanità dell'animale, 
questa come segno, quella come causa, -, 

oppure perché un termine presenta [corrispondenza o] proporzione con un altro, 
come sano si dice della medicina e dell'animale in quanto la medicina 
è causa della sanità che è nell'animale. 

E in questo modo alcuni nomi 
si dicono di Dio e delle creature analogicamente, 
e non in senso puramente equivoco, 
e neppure univoco. 

Infatti noi non possiamo parlare di Dio 
se non partendo dalle creature, come sopra [a. 1] si è detto. 

E così, qualunque termine si dica di Dio e delle creature, 
lo si dice per il rapporto che le creature hanno con Dio 
come al principio o alla causa in cui preesistono in modo eccellente 
tutte le perfezioni delle cose. 

E questo modo di comunanza sta in mezzo 
tra la pura equivocità e la semplice univocità, 
poiché nei nomi detti per analogia 
non vi è una nozione unica come negli univoci, 
né totalmente diversa, come negli equivoci, 

ma il nome che analogicamente è applicato a più soggetti 
significa diverse proporzioni riguardo a una medesima cosa: 

come sano detto dell'orina indica il segno della sanità, 
mentre detto della medicina significa la causa della stessa sanità.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica I, q. 13, a. 5