lunedì 28 novembre 2016

quando giudicare?


Sembra che non sia lecito giudicare. 

Infatti: 

1. Il castigo non viene inflitto che per una cosa illecita. 

Ma secondo il Vangelo [Mt 7, 1] coloro che giudicano 
sono sotto la minaccia di un castigo 
che è risparmiato invece a quelli che se ne astengono: 

"Non giudicate, per non essere giudicati".
Quindi giudicare non è una cosa lecita.

2. S. Paolo [Rm 14, 4] scrive: 

"Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? 
Sia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone". 

Ora, è Dio il padrone di tutti.
Perciò a nessun uomo è lecito giudicare.

3. Nessun uomo è senza peccato, poiché sta scritto [1 Gv 1, 8]
"Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi".
 
Ma a chi pecca è proibito di giudicare, 
secondo le parole di S. Paolo [Rm 2, 1]

"Sei dunque inescusabile chiunque tu sia, o uomo che giudichi: 
poiché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; 
infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose". 

Quindi nessuno è in grado di giudicare. 

In contrario: 

Sta scritto nel Deuteronomio [16, 18]

"Ti costituirai giudici e scribi in tutte le città: 
essi giudicheranno il popolo con giuste sentenze"

Rispondo: 

Il giudizio in tanto è lecito in quanto è un atto di giustizia. 

Ora, stando alle cose già dette [a. prec., ad 1, 3], 
affinché il giudizio sia un atto di giustizia si richiedono tre cose: 

primo, che derivi dall'abito della giustizia; 
secondo, che derivi dall'autorità di uno che comanda; 
terzo, che sia emanato secondo la retta norma della prudenza.

Quando dunque manca uno qualsiasi di questi elementi, 
allora il giudizio è vizioso e illecito.

In un primo modo quando uno va contro la rettitudine della giustizia: 
e allora il suo giudizio viene detto perverso, o ingiusto.

In un secondo modo invece quando uno giudica 
di cose su cui non ha autorità
e allora si parla di un giudizio usurpato.

Quando poi manca la certezza nella ragione
come quando uno giudica di cose dubbie od occulte 
basandosi su delle semplici supposizioni, 
allora si ha un giudizio sospettoso, o temerario

Soluzione delle difficoltà: 

1. Secondo S. Agostino [De serm. Dom. in monte 2, 18], 
in quel passo il Signore proibisce il giudizio temerario, 
che vuole giudicare le intenzioni e altre cose occulte. 

Oppure, stando a S. Ilario [In Mt 5], 
il Signore intendeva proibire il giudizio sulle cose divine, 
che noi non dobbiamo giudicare, 
essendo esse al di sopra di noi, ma semplicemente credere. 

Oppure egli intendeva proibire il giudizio 
fatto senza benevolenza e con animosità, 
secondo la spiegazione del Crisostomo 
[Op. imperf. in Mt hom. 17]. 

2. Il giudice viene costituito ministro di Dio. 

Per cui sta scritto [Dt 1, 16]: 
"Giudicate con giustizia"

e si aggiunge [v. 17]: 
"poiché il giudizio appartiene a Dio".

3. Coloro che sono in peccato mortale 
non devono giudicare quelli che sono nello stesso peccato, 
o in peccati meno gravi, 
come dice il Crisostomo [In Mt hom. 24] 
a commento delle parole evangeliche [Mt 7, 1]: 
"Non giudicate "

E ciò va inteso specialmente quando si tratta di peccati pubblici
poiché ne nascerebbe uno scandalo nella mente altrui.
 
Se invece i peccati non sono pubblici, ma occulti, 
e urge per ufficio la necessità di giudicare, 
con umiltà e tremore uno può rimproverare e giudicare.
 
Così infatti S. Agostino [De serm. Dom. in monte 2, 19] scriveva: 

"Se ci trovassimo nel medesimo peccato, 
gemiamone insieme, 
e invitiamoci reciprocamente a unire i nostri sforzi"

Né per questo uno condanna se stesso 
in modo da acquistare un nuovo titolo di condanna, 
ma piuttosto, condannando gli altri, 
mostra di essere anch'egli condannabile, 
per lo stesso peccato o per altri consimili.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, II-II, q. 60, a. 2

giovedì 24 novembre 2016

la giustizia ... nel giudizio

Sembra che il giudizio non sia un atto di giustizia. 

Infatti: 

1. Il Filosofo [Ethic. 1, 3] insegna che 
"ciascuno giudica bene ciò che conosce ": 
quindi il giudizio sembra appartenere alla facoltà conoscitiva.

Ma la facoltà conoscitiva riceve la sua perfezione dalla prudenza.
Perciò il giudizio appartiene più alla prudenza che alla giustizia, 
la quale, come si è visto [q. 58, a. 4], risiede nella volontà. 

2. L'Apostolo [1 Cor 2, 15] scrive che 
"l'uomo spirituale giudica ogni cosa".

Ma un uomo diventa spirituale specialmente con la virtù della carità, 
la quale "è stata riversata nei nostri cuori per mezzo 
dello Spirito Santo che ci è stato dato" [Rm 5, 5].

Quindi il giudizio appartiene più alla carità che alla giustizia.

3. A ogni virtù appartiene il retto giudizio sulla propria materia: 
poiché, secondo il Filosofo [Ethic. 3, 4], 

"in ogni cosa il virtuoso è regola e misura". 

Per cui il giudizio non appartiene alla giustizia 
più di quanto appartenga alle altre virtù morali.

4. Il giudizio è un compito esclusivo dei giudici, 
mentre gli atti della giustizia si riscontrano in tutti i giusti. 

Siccome quindi non sono giusti soltanto i giudici, 
sembra che il giudizio non sia un atto proprio della giustizia. 


In contrario: 

Nel Salmo [93, 15] si legge: 
"Fino a che la giustizia si concreti nel giudizio". 


Rispondo: 

Il giudizio indica propriamente l'atto del giudice come tale.
 
Giudice infatti suona ius dicens, cioè uno che dichiara il diritto. 
Ora il diritto, come si è visto [q. 57, a. 1], è l'oggetto della giustizia.

Quindi il giudizio, stando al suo primo significato, 
implica la definizione o determinazione del giusto, ossia del diritto.

Il fatto però che uno sappia ben definire 
quanto riguarda le azioni virtuose 
deriva propriamente dall'abito della virtù: 
come chi è casto sa determinare rettamente ciò che riguarda la castità.

E così il giudizio, 
che implica la retta determinazione del giusto o del diritto, 
appartiene propriamente alla giustizia.

Per cui il Filosofo [Ethic. 5, 4] afferma che 
gli uomini "ricorrono al giudice come a una giustizia animata". 

Soluzione delle difficoltà: 

1. Il termine giudizio, che nel suo primo significato 
sta a indicare la retta determinazione del diritto, 
fu esteso poi a indicare la determinazione retta di qualsiasi altra cosa, 
sia nell'ordine speculativo che nell'ordine pratico. 

In tutti i casi però il retto giudizio esige due elementi.

Primo, la facoltà che deve direttamente proferire il giudizio
E da questo lato il giudizio è un atto della ragione
infatti l'atto di dire o di definire appartiene alla ragione.

L'altro elemento è invece la disposizione di chi giudica
dalla quale dipende la sua idoneità a ben giudicare. 

E da questo lato nelle cose relative alla giustizia 
il giudizio procede dalla giustizia
come nelle cose relative alla fortezza procede dalla fortezza.

Così dunque il giudizio è un atto della giustizia 
in quanto da questa dipende l'inclinazione a ben giudicare, 
ma è un atto della prudenza in quanto questa lo proferisce.

Per cui anche la synesis, che è una parte integrante della prudenza, 
viene considerata "bene giudicativa ", 
come sopra si è detto [q. 51, a. 3]. 

2. L'uomo spirituale riceve dall'abito della carità 
l'inclinazione a giudicare rettamente di ogni cosa 
secondo le leggi divine, 
proferendo il suo giudizio mediante il dono della sapienza:
 
precisamente come il giusto lo proferisce 
mediante la virtù della prudenza secondo le regole del diritto. 

3. Le altre virtù regolano l'uomo in se stesso, 
mentre la giustizia regola l'uomo in rapporto agli altri

come si è detto [q. 58, a. 2].

Ora, uno è padrone delle cose che appartengono a lui, 
non di quelle che appartengono agli altri.

E così in ciò che riguarda le altre virtù 
si richiede solo il giudizio della persona virtuosa, 
giudizio in senso lato, come si è visto [ad 1], 

mentre in materia di giustizia 
si richiede anche il giudizio di un superiore, 
"il quale possa fare da arbitro e stendere la mano su entrambi" 
[Gb 9, 33].

Per questo il giudizio appartiene più alla giustizia che a qualsiasi altra virtù.

4. In chi comanda la giustizia si trova come virtù architettonica o magistrale, 
quasi nell'atto di imporre e di prescrivere il diritto, 
mentre nei sudditi si trova come virtù esecutrice e subordinata. 
Per cui il giudizio, che implica la determinazione del diritto, o del giusto, 
appartiene alla giustizia secondo che questa 
si trova in maniera più eccellente in chi comanda.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, II-II, q. 60, a. 1

lunedì 14 novembre 2016

quale castigo?


"L'ho abbandonato alla durezza del suo cuore, 
che seguisse il proprio consiglio"
(Salmo 81,13)

"Quando si legge che Dio abbandona l'uomo a se stesso 
non si intende escludere l'uomo dalla divina provvidenza
ma si vuole solo mostrare che non gli è stata prefissata 
una capacità operativa determinata a un solo modo di agire, 
come alle realtà naturali 
- che non agiscono se non sotto l'impulso di qualcos'altro, 
senza dirigersi da sé verso il loro fine, 
come [invece fanno] le creature razionali mediante il libero arbitrio, 
in virtù del quale deliberano e scelgono -. 

Quindi la Scrittura usa l'espressione "in balìa del suo proprio volere". 

Ma poiché lo stesso atto del libero arbitrio 
si riconduce a Dio come alla sua causa
è necessario che anche ciò che viene fatto con il libero arbitrio 
sia sottomesso alla divina provvidenza di Dio, 
come una causa particolare alla causa universale. 

- Agli uomini giusti poi Dio provvede in maniera più speciale che agli empi, 
in quanto non permette che ad essi accada 
qualcosa che ostacoli definitivamente la loro salvezza: 
poiché, come afferma l'Apostolo [Rm 8, 28], 

"tutto coopera al bene di coloro che amano Dio"

Degli empi, invece, è detto che li abbandona 
per il fatto che non li ritrae dal male morale

Non in modo tale però che siano del tutto esclusi dalla sua provvidenza: 
perché se non fossero conservati 
dalla sua provvidenza ricadrebbero nel nulla. 

- E pare che proprio da questa difficoltà sia stato mosso Cicerone 
[De divinat. 2] 
quando sottrasse alla divina provvidenza 
le realtà umane intorno a cui deliberiamo".

San Tommaso D'Aquino, Somma Teologica I, q. 22, a. 2.4  

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 " ... Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: 
"Perché parli loro in parabole?". 

Egli rispose: 
"Perché a voi è dato di conoscere 
i misteri del regno dei cieli, 
ma a loro non è dato

Così a chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; 
e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. 

Per questo parlo loro in parabole: 

perché pur vedendo non vedono, 
e pur udendo non odono e non comprendono. 

E così si adempie per loro la profezia di Isaia che dice: 

Voi udrete, ma non comprenderete, 
guarderete, ma non vedrete. 

Perché il cuore di questo popolo 
si è indurito, son diventati duri di orecchi, 
e hanno chiuso gli occhi
per non vedere con gli occhi, 
non sentire con gli orecchi 
e non intendere con il cuore e convertirsi, 
e io li risani. 

Ma beati i vostri occhi perché vedono 
e i vostri orecchi perché sentono. 

In verità vi dico: 
molti profeti e giusti hanno desiderato 
vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, 
e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l'udirono!"

Vangelo di Matteo 13, 10-17

inizio della sapienza: fede e timore


In due modi una cosa può dirsi l'inizio della sapienza

primo, perché è l'inizio della sua costituzione essenziale
secondo, perché è l'inizio dei suoi effetti.

Come l'inizio di un'arte nei suoi dati essenziali 
è dato dai princìpi da cui essa deriva, 
mentre l'inizio di tale arte nei suoi effetti 
è il punto di partenza della realizzazione del lavoro artistico: 

come se si dicesse che per l'arte muraria 
il principio è costituito dalle fondamenta 
perché è di là che il muratore comincia a operare.

Ora, essendo la sapienza la cognizione delle cose di Dio
come vedremo [q. 45, a. 1], 
i teologi e i filosofi la considerano in maniera diversa.

Poiché infatti la nostra vita è indirizzata alla fruizione di Dio 
mediante una partecipazione della natura divina, 
cioè mediante la grazia, 
noi teologi non dobbiamo considerare la sapienza 
solo come cognizione di Dio alla maniera dei filosofi, 
bensì anche quale principio direttivo della vita umana
la quale è diretta non solo dalle ragioni umane, 
ma anche dalle ragioni divine, come spiega S. Agostino [De Trin. 12, 13].

Così dunque l'inizio della sapienza 
quanto alla sua struttura essenziale sono i primi princìpi di essa, 
vale a dire gli articoli di fede. 

E da questo lato l'inizio della sapienza è la fede.

Quanto invece agli effetti l'inizio della sapienza 
è il punto da cui parte la sua operazione.

E da questo lato l'inizio della sapienza è il timore.

Per certi aspetti tuttavia il timore servile e per certi altri il timore filiale.

Infatti il timore servile è come un principio 
che dispone alla sapienza dall'esterno: 

cioè in quanto il timore del castigo allontana dal peccato 
predisponendo un soggetto agli effetti della sapienza, 
secondo le parole della Scrittura [Sir 1, 17 Vg]: 
"Il timore di Dio scaccia il peccato".

Invece il timore casto, o filiale, 
è inizio della sapienza come suo primo effetto.

Essendo infatti compito della sapienza 
il guidare la vita umana secondo le ragioni divine, 
bisogna iniziare col rispetto dell'uomo verso Dio, 
e con la sottomissione a lui: 

da ciò infatti deriva come conseguenza 
che uno si regoli in tutto secondo Dio.

San Tommaso D'Aquino, Somma Teologica II-II, q. 19, a. 7

venerdì 11 novembre 2016

lussuria e accecamento ... della mente

Quando le potenze inferiori 
sono fortemente impressionate dai loro oggetti, 
ne segue che le facoltà superiori 
vengono impedite e turbate nei loro atti. 

Ora, è specialmente nei peccati di lussuria, 
per l'intensità del piacere, che l'appetito inferiore, cioè il concupiscibile, 
si volge con violenza verso il proprio oggetto, cioè verso il bene dilettevole.

Ne segue quindi che le potenze superiori, 
cioè la ragione e la volontà, 
vengono turbate in modo gravissimo dalla lussuria.

Ora, gli atti della ragione in campo pratico sono quattro. 

Primo, la semplice intellezione, che intuisce il fine come un bene. 

E questo atto viene compromesso dalla lussuria, 
secondo le parole di Daniele [13, 56]: 
"La bellezza ti ha sedotto, la passione ti ha pervertito il cuore". 
E abbiamo così l'accecamento della mente

Il secondo atto è la deliberazione sui mezzi da usare per raggiungere il fine. 

E anche questo viene impedito dalla concupiscenza della lussuria: 
per cui Terenzio [Eunuch. 1, 1] poteva dire dell'amore libidinoso: 
"È una cosa che in sé non ha né deliberazione né misura, 
e tu non puoi governarlo con la riflessione". 

E così abbiamo la precipitazione, 
che implica mancanza di deliberazione, 
come sopra [q. 53, a. 3] si è detto. 

Il terzo atto è il giudizio sulle azioni da compiere. 

E anche questo viene impedito dalla lussuria; 
si legge infatti in Daniele [13, 9] a proposito dei [due] vecchi lussuriosi: 
"Persero il lume della ragione, così da non ricordarsi del giusto giudizio".
E quanto a ciò viene posta l'inconsiderazione. 

Il quarto atto è il comando esecutivo della ragione. 

E anche questo viene impedito dalla lussuria: 
poiché dall'impeto della concupiscenza 
l'uomo viene impedito dall'eseguire ciò che si era proposto di fare.
 
Per cui Terenzio [l. cit.] così parla di un innamorato 
che diceva di volersi separare dalla sua amante: 
"Tutte queste parole saranno sopraffatte dalla prima lacrimuccia bugiarda".


Dalla parte poi della volontà conseguono due atti disordinati. 

Il primo riguarda il desiderio del fine, 
per cui si ha l'amore di sé, 
a motivo cioè del piacere che il lussurioso brama disordinatamente, 
e per opposizione l'odio di Dio, 
in quanto cioè Dio proibisce la concupiscenza dei piaceri. 

Il secondo riguarda invece il desiderio dei mezzi, 
per cui si ha l'attaccamento alla vita presente, 
nella quale il lussurioso vuole godersi il piacere, 
mentre all'opposto si ha la disperazione della vita futura, 
poiché chi è troppo preso dai piaceri carnali 
non si cura di raggiungere i beni spirituali, di cui sente fastidio.
 
San Tommaso D'Aquino, Somma Teologica, II-II, q. 153, a. 5 

mercoledì 9 novembre 2016

illusione di un mondo irreale


La pornografia 
consiste nel sottrarre all'intimità dei partner 
gli atti sessuali, reali o simulati, 
per esibirli deliberatamente a terze persone. 

Offende la castità perché snatura l'atto coniugale, 
dono intimo e reciproco degli sposi. 

Lede gravemente la dignità di coloro che vi si prestano 
(attori, commercianti, pubblico), 
poiché l'uno diventa per l'altro oggetto 
di un piacere rudimentale e di un illecito guadagno. 

Immerge gli uni e gli altri nell'illusione di un mondo irreale. 

È una colpa grave. 

Le autorità civili devono impedire la produzione 
e la diffusione di materiali pornografici.


CCC, 2354
http://www.vatican.va/archive/catechism_it/p3s2c2a6_it.htm

venerdì 4 novembre 2016

creazione, male e provvidenza

 Se Dio Padre onnipotente, 
Creatore del mondo ordinato e buono, 
si prende cura di tutte le sue creature, 
perché esiste il male?

A questo interrogativo tanto pressante quanto inevitabile, tanto doloroso quanto misterioso, nessuna risposta immediata potrà bastare. È l'insieme della fede cristiana che costituisce la risposta a tale questione: la bontà della creazione, il dramma del peccato, l'amore paziente di Dio che viene incontro all'uomo con le sue alleanze, con l'incarnazione redentrice del suo Figlio, con il dono dello Spirito, con la convocazione della Chiesa, con la forza dei sacramenti, con la vocazione ad una vita felice, alla quale le creature libere sono invitate a dare il loro consenso, ma alla quale, per un mistero terribile, possono anche sottrarsi. 

Non c'è un punto del messaggio cristiano che non sia, 
per un certo aspetto, una risposta al problema del male.

Ma perché Dio non ha creato 
un mondo a tal punto perfetto 
da non potervi essere alcun male? 

Nella sua infinita potenza, Dio potrebbe sempre creare qualcosa di migliore. Tuttavia, nella sua sapienza e nella sua bontà infinite, Dio ha liberamente voluto creare un mondo « in stato di via » verso la sua perfezione ultima. Questo divenire, nel disegno di Dio, comporta, con la comparsa di certi esseri, la scomparsa di altri, con il più perfetto anche il meno perfetto, con le costruzioni della natura anche le distruzioni. Quindi, insieme con il bene fisico esiste anche il male fisico, finché la creazione non avrà raggiunto la sua perfezione.

 Gli angeli e gli uomini, creature intelligenti e libere, devono camminare verso il loro destino ultimo per una libera scelta e un amore di preferenza. Essi possono, quindi, deviare. In realtà, hanno peccato. È così che nel mondo è entrato il male morale, incommensurabilmente più grave del male fisico. Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene:

« Infatti Dio onnipotente [...], essendo supremamente buono, non permetterebbe mai che un qualsiasi male esistesse nelle sue opere, se non fosse sufficientemente potente e buono da trarre dal male stesso il bene ».

 Così, col tempo, si può scoprire che Dio, nella sua provvidenza onnipotente, può trarre un bene dalle conseguenze di un male, anche morale, causato dalle sue creature: « Non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio. [...] Se voi avete pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene [...] per far vivere un popolo numeroso » (Gn 45,8; 50,20). 

Dal più grande male morale che mai sia stato commesso, il rifiuto e l'uccisione del Figlio di Dio, causata dal peccato di tutti gli uomini, Dio, con la sovrabbondanza della sua grazia, ha tratto i più grandi beni: la glorificazione di Cristo e la nostra redenzione. Con ciò, però, il male non diventa un bene.
 « Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio » (Rm 8,28). 


La testimonianza dei santi non cessa di confermare questa verità:

Così santa Caterina da Siena dice 
a « coloro che si scandalizzano » e si ribellano 
davanti a ciò che loro capita: 
« Tutto viene dall'amore, tutto è ordinato alla salvezza dell'uomo, 
Dio non fa niente se non a questo fine ».

E san Tommaso Moro, 
poco prima del martirio, consola la figlia: 
« Non accade nulla che Dio non voglia, 
e io sono sicuro che qualunque cosa avvenga, 
per quanto cattiva appaia, 
sarà in realtà sempre per il meglio ».

E Giuliana di Norwich: 
« Imparai dalla grazia di Dio che 
dovevo rimanere fermamente nella fede, 
e quindi dovevo saldamente e perfettamente credere 
che tutto sarebbe finito in bene [...]. 
Tu stessa vedrai che ogni specie di cosa sarà per il bene ».

Noi crediamo fermamente che Dio è Signore del mondo e della storia. Ma le vie della sua provvidenza spesso ci rimangono sconosciute. Solo alla fine, quando avrà termine la nostra conoscenza imperfetta e vedremo Dio « a faccia a faccia » (1 Cor 13,12), conosceremo pienamente le vie lungo le quali, anche attraverso i drammi del male e del peccato, Dio avrà condotto la sua creazione fino al riposo di quel Sabato definitivo, in vista del quale ha creato il cielo e la terra.

CCC, p.1, s.2, c.1, p.4 
http://www.vatican.va/archive/catechism_it/p1s2c1p4_it.htm