domenica 31 maggio 2015

fini naturali: uno per tutti?

Sembra che non sia unico il fine ultimo 
per tutti gli uomini. Infatti:

È evidente che, se c'è un fine ultimo, 
questo è il bene incommutabile. 

Ora, molti col peccato [sbagliando] si allontanano da esso. 
Dunque non esiste un unico fine ultimo per tutti gli uomini.

Il fine ultimo regola tutta la vita di un uomo. 

Se, dunque, tutti gli uomini avessero un unico fine ultimo, 
non ci sarebbero tra loro sistemi diversi di vita. 
Il che invece è falso in maniera evidente.

Il fine non è che il termine dell'azione. 

Ora, le azioni sono individuali. 
E gli uomini, sebbene possiedano una comune natura specifica, 
differiscono tuttavia nei dati individuali. 
Dunque l'ultimo fine non è unico per tutti gli uomini.

In contrario 

S. Agostino insegna che tutti gli uomini 
concordano nel desiderare l'ultimo fine, 
che è la beatitudine.

Rispondo. 

Possiamo considerare l'ultimo fine sotto due aspetti: 
primo, fermandoci alla ragione (astratta) di ultimo fine; 
secondo, cercando l'oggetto in cui la ragione suddetta si trova. 

Stando alla ragione di ultimo fine, 
tutti concordano nel desiderio del fine ultimo; 
poiché tutti desiderano il raggiungimento della propria perfezione, 
costitutivo, come si è detto, della ragione di ultimo fine. 

Non tutti invece concordano nell'ultimo fine, 
quando si tratta di stabilire l'oggetto 
in cui la suddetta ragione si trova: 
alcuni infatti desiderano come bene perfetto le ricchezze, 
altri i piaceri, altri ancora qualunque altra cosa. 

Per ogni gusto, insomma, è piacevole il dolce: 
ma a qualcuno piace di più il dolce del vino, 
ad altri quello del miele, o di altre cose ancora. 

Tuttavia il dolce più buono e piacevole dovrà essere, 
senz'altro, quello che è più gradito a chi ha il gusto più raffinato. 

Allo stesso modo sarà necessariamente bene perfettissimo 
quello che è desiderato come fine ultimo, 
da coloro che hanno gli affetti bene ordinati.

Soluzione delle difficoltà.

I peccatori 
[coloro che non hanno gli affetti ben ordinati] 
si allontanano da quel bene 
in cui realmente si trova l'essenza dell'ultimo fine: 
non si allontanano invece dalla ragione formale dell'ultimo fine, 
che ricercano, ingannandosi, in altri oggetti.

Esistono tra gli uomini vari sistemi di vita, 
per la diversità degli oggetti in cui si cerca 
la ragione di bene supremo.

Sebbene le azioni appartengano agli individui, 
il principio operativo deriva in essi dalla natura, 
la quale tende a un unico termine, 
come abbiamo già ricordato.

San Tommaso D'Aquino, Summa teologica, Ia-IIae, q.1, a.7


sabato 23 maggio 2015

l'insensibilità... contro l'ultima virtù

Tutto ciò che è contrario all'ordine naturale 
è peccaminoso [o disonesto].

Ora, la natura ha legato il piacere
alle funzioni necessarie per la vita dell'uomo.

Perciò l'ordine naturale richiede che l'uomo usi di codesti piaceri,
quanto è necessario al benessere umano,
sia per la conservazione dell'individuo, che per la conservazione della specie.

Perciò se uno si astenesse da questi piaceri
al punto di trascurare ciò che è necessario per la conservazione della natura,
commetterebbe peccato [o uno sbaglio], violando così l'ordine naturale.

Ed è questo appunto che rientra nel vizio dell'insensibilità.

Si deve però notare che talora è cosa lodevole e necessaria
astenersi dai piaceri che accompagnano le suddette funzioni,
per raggiungere un fine particolare.

Così alcuni si astengono da certi piaceri,
ossia dai cibi, dalle bevande e dai piaceri venerei, per la salute del corpo.
Oppure per compiere le proprie mansioni: gli atleti e i soldati, p. es.,
son costretti ad astenersi da molti piaceri, per eseguire i loro esercizi.

Parimenti, per ricuperare la salute dell'anima
i penitenti ricorrono all'astinenza dai piaceri, come a una dieta.
E coloro che vogliono attendere alla contemplazione delle cose divine,
devono essere più liberi dalle cose della carne.

Ma tutti questi casi non si riducono al vizio dell'insensibilità:
poiché sono conformi alla retta ragione.

Daniele ricorse a quell'astinenza dai piaceri,
non perché li considerava cattivi in se stessi; ma per un fine lodevole,
e cioè per predisporsi alla più alta contemplazione
con l'astenersi dai piaceri della carne.

Subito dopo infatti la Scrittura parla delle rivelazioni che gli furono fatte.

L'uomo, come abbiamo spiegato nella Prima Parte,
non può servirsi della ragione, senza far uso delle potenze sensitive,
le quali hanno bisogno di un organo corporeo.
Per questo l'uomo deve dare sostentamento al corpo,
per servirsi della ragione.
Ma il sostentamento del corpo si fa mediante funzioni piacevoli.
Perciò in un uomo non può esserci il bene di ordine razionale,
se egli si astiene da tutti i piaceri.

A seconda però che uno nell'eseguire gli atti imposti dalla ragione
ha maggiore o minore bisogno di forze fisiche,
deve ricorrere di più o di meno ai piaceri del corpo.

Perciò coloro che hanno preso l'ufficio di attendere alla contemplazione,
e di trasmettere così in altri il bene spirituale,
quasi mediante una generazione di ordine spirituale,
è bene che si astengano da molti piaceri,

di cui invece non è giusto che si privino
coloro che hanno il dovere di attendere
ad opere materiali e alla generazione carnale.

Per fuggire il peccato si devono fuggire i piaceri,
però non totalmente,
ma non cercandoli più di quanto la necessità lo richiede.


San Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, IIa-IIae, q.142, a.1

martedì 19 maggio 2015

oltre la giustizia ... la felicità

È necessario affermare che in ogni opera di Dio 
si trovano la misericordia e la verità, 
purché si intenda la misericordia 
come l‘eliminazione di una qualsiasi deficienza; 

per quanto non ogni deficienza possa dirsi propriamente miseria, 
ma soltanto le deficienze della creatura razionale, 
alla quale spetta di essere felice: 
infatti la miseria è il contrario della felicità.

La ragione poi di tale necessità sta in questo, 
che il debito soddisfatto dalla divina giustizia 
è cosa dovuta o a Dio [stesso], oppure alla creatura; 
e nessuna delle due cose può mancare in qualsiasi opera di Dio. 

Infatti Dio non può fare cosa alcuna 
che non sia conforme alla sua sapienza e bontà; 
e in questo senso, come si è detto [a. 1, ad 3], una cosa è dovuta a Dio. 
Come pure, qualunque cosa Dio faccia nel creato, 
la fa secondo l‘ordine e la proporzione convenienti, 
e in ciò consiste appunto la nozione di giustizia. 

E così è necessario che in ogni opera di Dio ci sia la giustizia.

Ogni opera della divina giustizia, poi, 
presuppone sempre l‘opera della misericordia e in essa si fonda. 
Infatti nulla è dovuto a una creatura 
se non in ragione di qualche perfezione che in essa preesiste 
o che si considera come anteriore; 
e se a sua volta tale perfezione è dovuta alla creatura, 
ciò è in forza di un‘altra cosa antecedente. 

E siccome non si può procedere all‘infinito,
bisogna arrivare a un qualcosa 
che dipenda unicamente dalla bontà divina,
che è l‘ultimo fine [di tutte le cose]. 

Come se dicessimo che avere le mani 
è dovuto all‘uomo in vista dell‘anima razionale, 
avere poi un‘anima razionale gli è dovuto affinché sia uomo, 
ma l‘essere uomo non ha altro motivo che la bontà divina. 

E così in ogni opera di Dio appare la misericordia 
come sua prima radice. 
E l‘influsso di essa permane in tutte le cose che vengono dopo,
e anche vi opera con maggiore efficacia, 
poiché la causa prima ha un influsso più forte delle cause seconde. 

E per questo stesso motivo anche ciò che è
dovuto a una creatura Dio, per l‘abbondanza della sua bontà, 
lo dispensa con larghezza maggiore 
di quanto non richieda la proporzione della cosa. 

Infatti ciò che basterebbe per conservare l‘ordine della giustizia 
è sempre meno di ciò che è conferito dalla bontà divina, 
che supera ogni esigenza della creatura.

San Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae I, q. 21, a. 4

domenica 10 maggio 2015

come il Padre ...alla sera della vita


... Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, 
nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo 
e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. 

Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, 
le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, 
e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. 
Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi 
perché sentano il calore della nostra presenza, 
dell’amicizia e della fraternità. 

Che il loro grido diventi il nostro e insieme 
possiamo spezzare la barriera di indifferenza 
che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo.

È mio vivo desiderio che il popolo cristiano 
rifletta durante il Giubileo 
sulle opere di misericordia corporale e spirituale. 

Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza 
spesso assopita davanti al dramma della povertà 
e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, 
dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina. 


La predicazione di Gesù ci presenta queste opere di misericordia 
perché possiamo capire se viviamo o no come suoi discepoli. 

Riscopriamo le opere di misericordia corporale: 
dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, 
vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, 
assistere gli ammalati, visitare i carcerati, 
seppellire i morti. 

E non dimentichiamo le opere di misericordia spirituale: 
consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, 
ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, 
sopportare pazientemente le persone moleste, 
pregare Dio per i vivi e per i morti.


Non possiamo sfuggire alle parole del Signore: 
e in base ad esse saremo giudicati: 

se avremo dato da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete. 
Se avremo accolto il forestiero e vestito chi è nudo. 
Se avremo avuto tempo per stare con chi è malato e prigioniero 
(cfr Mt 25,31-45). 

Ugualmente, ci sarà chiesto se avremo aiutato 
ad uscire dal dubbio che fa cadere nella paura 
e che spesso è fonte di solitudine; 

se saremo stati capaci di vincere l’ignoranza 
in cui vivono milioni di persone, 
soprattutto i bambini privati dell’aiuto necessario 
per essere riscattati dalla povertà; 

se saremo stati vicini a chi è solo e afflitto; 
se avremo perdonato chi ci offende e respinto 
ogni forma di rancore e di odio che porta alla violenza; 

se avremo avuto pazienza sull’esempio di Dio 
che è tanto paziente con noi; 
se, infine, avremo affidato al Signore 
nella preghiera i nostri fratelli e sorelle. 

In ognuno di questi “più piccoli” è presente Cristo stesso. 

La sua carne diventa di nuovo visibile 
come corpo martoriato, piagato, flagellato, denutrito, in fuga… 
per essere da noi riconosciuto, toccato e assistito con cura. 

Non dimentichiamo le parole di san Giovanni della Croce:
« Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore ».

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/apost_letters/documents/
papa-francesco_bolla_20150411_misericordiae-vultus.html

domenica 3 maggio 2015

scettico, deluso, disperato? ...l'enigma

« Hanno tutti un medesimo soffio, l’uomo, l’animale. 
Persino l’Ecclesiaste lo ammette; 
per questo i sapienti hanno voluto censurarlo. 
Be’, ma che cos’è un soffio vitale? Chi formò il soffio vitale?...». 

Lo scrittore I. B. Singer nel racconto Là c’è qualcosa
con questa battuta che rimanda a Qo 3,19, 
evoca la « censura » implicita o esplicita 
imposta sul messaggio di Qohelet dai « sapienti ». 

Attorno a questo libretto [...] s’è accesa la battaglia delle interpretazioni 
che talora hanno persino il sapore di censure. 

Tutto l’arco possibile dei significati è già stato coperto: 
da libro « ateo » a gioiosa composizione di fiducia! 

Cosi, ad esempio, Sh. Alechem, lo scrittore yiddish [...], 
basandosi sul passo di 3,19, usava Qohelet come manifesto 
di un suo personaggio ateo e scettico: 
« Arnold di Pidvorke si prendeva beffe di tutto, 
la giustizia divina, per lui, non esisteva. 

La Bibbia dichiara espressamente 
- sosteneva Arnold - 
che l’uomo non è superiore alla bestia ». 

Ma, all’antipodo, la tradizione liturgica sinagogale 
usava Qohelet per la festa delle Capanne: 
« Sukkòt (Capanne) è la stagione della nostra gioia 
e il libro di Qohelet loda la gioia ». 

Anche nella sua interpretazione Qohelet è, 
quindi, un enigma difficilmente solubile.

[...]

 «Qohelet, lo scettico » (R. Murphy), 
«Qohelet deluso dall’esperienza» (A. M. Dubarle), 
« Qohelet contestatore: fratelli, bisogna morire » (A. Maillot), 
«Qohelet o che vale la vita?» (D. Lys), 
« Qohelet: mette conto di vivere? » (E. Podechard), 

« Qohelet o il processo della felicità »   (E. Glasser), 
« Qohelet e il cinismo disgustato del mondo » (J. T. Walsh), 
« Qohelet, la sentinella critica » (W. Zimmerli), 
« Qohelet, teologo insensibile » (G. von Rad)... 

Potremmo allungare per pagine questa lista 
di definizioni negative del nostro sapiente. 

È un’interpretazione dalle mille sfumature e dai diversi accenti, 
dalle tonalità accese e dai giudizi più compassati 
a seconda dello spirito e della prospettiva dei vari studiosi. 

Il filo comune che lega queste letture di Qohelet è, 
comunque, quello che fa di lui un sapiente pessimista, 
disincantato, un po’ maestro del sospetto, 
un po’ rassegnato ed impotente testimone 
della crisi dei  valori sapienziali tradizionali. 

Questa linea interpretativa, dominante ancor oggi tra gli esegeti, 
è a nostro avviso la più pertinente, 
al di là delle formule sbrigative o anacronistiche 
usate per le definizioni essenziali e sintetiche.

Ribelle solitario, pensatore eccentrico, 
desideroso di una risposta globale al senso della vita e dell’essere 
contro ogni spiegazione settoriale, 
Qohelet è visto come un intellettuale critico che, 
pur usando metodi e strutture della sapienza tradizionale, 
ne rivela la radicale insufficienza. 

G. von Rad sente che il Qohelet rappresenta 
la forma più « razionalista » della sapienza: 

l’esperienza non è più mantenuta in dialogo con la fede 
né da essa è decifrata, 
ora è l’esperienza stessa che si auto-interpreta 
con esiti piuttosto amari. 

Ecco, allora, la vita priva di senso, 
ridotta ad hebel vano e fumoso; 
ecco la percezione della storia 
come una catena ciclica e deterministica 
in cui Dio ci imprigiona; 
ecco l’oggettiva incomprensibilità dell’essere, 
del mondo, dell’«opera di Dio». 

Si spegne, così, il dialogo tra Dio e uomo,
 tra uomo e uomo e tra uomo e mondo,  
essendo i termini del triangolo sapienziale 
(Dio, uomo, mondo) 
indecifrabili e « in-sensati», 
almeno secondo un progetto logico. 

Pur lasciando aperto lo spiraglio di alcuni beni 
che si possono godere e che sono dono divino, 

«Qohelet - scrive ancora G. von Rad - 
è incapace di entrare in conversazione col mondo 
che lo circonda e gli si impone. 

Esso è diventato per lui 
un mondo estraneo, muto, che lo respinge, 
un mondo in cui egli non può aver fiducia, 
a meno che gli offra una pienezza di vita. 

Al contrario, i sapienti erano del parere che, 
per mezzo del mondo che interpella l’uomo, 
è Dio stesso che gli parla e che solo in questo dialogo 
l’uomo si vede assegnare un posto nella vita ».

http://ora-et-labora.net/bibbia/ravasi.html

venerdì 1 maggio 2015

le "res novae" ... in economia

Nell'epoca della globalizzazione va sottolineata con forza 
la solidarietà fra le generazioni:

« In passato la solidarietà tra le generazioni era in molti Paesi 
un atteggiamento naturale da parte della famiglia; 
oggi è diventato anche un dovere della comunità ». 

È bene che tale solidarietà continui ad essere perseguita 
nelle comunità politiche nazionali, 
ma oggi il problema si pone anche per la comunità politica globale, 
affinché la mondializzazione 
non si realizzi a discapito dei più bisognosi e dei più deboli.

La solidarietà tra le generazioni richiede 
che nella pianificazione globale si agisca secondo 
il principio dell'universale destinazione dei beni, 
che rende illecito moralmente e controproducente economicamente 
scaricare i costi attuali sulle future generazioni: 

illecito moralmente 
perché significa non assumersi le dovute responsabilità, 
controproducente economicamente 
perché la correzione dei guasti è più dispendiosa della prevenzione.

Questo principio va applicato soprattutto 
- anche se non solo - 
nel campo delle risorse della terra e della salvaguardia del creato, 
reso particolarmente delicato dalla globalizzazione, 
la quale riguarda tutto il pianeta, 
inteso come unico ecosistema.

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/justpeace/documents/
rc_pc_justpeace_doc_20060526_compendio-dott-soc_it.html#
a) La globalizzazione: le opportunità e i rischi