domenica 27 settembre 2015

la quarta via: la più debole

Che Dio esista si può provare per cinque vie. 

La prima e la più evidente è quella che si desume dal moto. 

È certo infatti e consta dai sensi,
che in questo mondo alcune cose si muovono. 
Ora, tutto ciò che si muove è mosso da un altro. 
Infatti, niente si trasmuta che non sia potenziale 
rispetto al termine del movimento; 
mentre chi muove, muove in quanto è in atto. 
Perché muovere non altro significa 
che trarre qualche cosa dalla potenza all'atto; 
e niente può essere ridotto dalla potenza all'atto
se non mediante un essere che è già in atto. 
P. es., il fuoco che è caldo attualmente rende caldo in atto il legno, 
che era caldo soltanto potenzialmente, e così lo muove e lo altera. 
Ma non è possibile che una stessa cosa 
sia simultaneamente e sotto lo stesso aspetto in atto ed in potenza: 
lo può essere soltanto sotto diversi rapporti: 
così ciò che è caldo in atto non può essere insieme caldo in potenza, 
ma è insieme freddo in potenza. 
È dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto 
una cosa sia al tempo stesso movente e mossa, cioè che muova se stessa. 
È dunque necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da un altro. 
Se dunque l'essere che muove è anch'esso soggetto a movimento, 
bisogna che sia mosso da un altro, e questo da un terzo e così via. 
Ora, non si può in tal modo procedere all'infinito, 
perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, 
e di conseguenza nessun altro motore, 
perché i motori intermedi non muovono 
se non in quanto sono mossi dal primo motore, 
come il bastone non muove se non in quanto è mosso dalla mano. 
Dunque è necessario arrivare ad un primo motore 
che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio.


La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente. 

Troviamo nel mondo sensibile che vi è un ordine tra le cause efficienti, 
ma non si trova, ed è impossibile, 
che una cosa sia causa efficiente di se medesima; 
ché altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile. 
Ora, un processo all'infinito nelle cause efficienti è assurdo. 
Perché in tutte le cause efficienti concatenate la prima è causa dell'intermedia, 
e l'intermedia è causa dell'ultima, siano molte le intermedie o una sola; 
ora, eliminata la causa è tolto anche l'effetto: 
se dunque nell'ordine delle cause efficienti non vi fosse una prima causa, 
non vi sarebbe neppure l'ultima, né l'intermedia. 
Ma procedere all'infinito nelle cause efficienti 
equivale ad eliminare la prima causa efficiente; 
e così non avremo neppure l'effetto ultimo, né le cause intermedie: 
ciò che evidentemente è falso. 
Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, 
che tutti chiamano Dio.


La terza via è presa dal possibile 
(o contingente) e dal necessario, ed è questa. 

Tra le cose noi ne troviamo di quelle che possono essere e non essere; 
infatti alcune cose nascono e finiscono, 
il che vuol dire che possono essere e non essere. 
Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, 
perché ciò che può non essere, un tempo non esisteva. 
Se dunque tutte le cose (esistenti in natura sono tali che) 
possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. 
Ma se questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, 
perché ciò che non esiste, 
non comincia ad esistere se non per qualche cosa che è. 
Dunque, se non c'era ente alcuno, 
è impossibile che qualche cosa cominciasse ad esistere, 
e così anche ora non ci sarebbe niente, 
il che è evidentemente falso. 
Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, 
ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario. 
Ora, tutto ciò che è necessario, 
o ha la causa della sua necessità in altro essere oppure no. 
D'altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la causa della loro necessità, 
non si può procedere all'infinito, 
come neppure nelle cause efficienti secondo che si è dimostrato. 
Dunque bisogna concludere all'esistenza di un essere 
che sia di per sé necessario, e non tragga da altri la propria necessità, 
ma sia causa di necessità agli altri. 
E questo tutti dicono Dio.


La quarta via si prende dai gradi che si riscontrano nelle cose. 

È un fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile 
e altre simili perfezioni in un grado maggiore o minore. 
Ma il grado maggiore o minore si attribuisce alle diverse cose 
secondo che esse si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto; 
così più caldo è ciò che maggiormente si accosta al sommamente caldo. 
Vi è dunque un qualche cosa che è vero al sommo, 
ottimo e nobilissimo, e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente; 
perché, come dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto vero, 
è tale anche in quanto ente. 
Ora, ciò che è massimo in un dato genere, 
è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, 
come il fuoco, caldo al massimo, è cagione di ogni calore, 
come dice il medesimo Aristotele. 
Dunque vi è qualche cosa che per tutti gli enti 
è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. 
E questo chiamiamo Dio.


La quinta via si desume dal governo delle cose.

Noi vediamo che alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, 
cioè i corpi fisici, operano per un fine, 
come appare dal fatto che esse operano 
sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione: 
donde appare che non a caso, ma per una predisposizione raggiungono il loro fine. 
Ora, ciò che è privo d'intelligenza non tende al fine 
se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, 
come la freccia dall'arciere. 
Vi è dunque un qualche essere intelligente, 
dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: 
e quest'essere chiamiamo Dio.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, I, q.2, a.3

http://www.cattedrarosmini.org/site/view/view.php?cmd=view&id=47&menu1=m3&menu2=m9&menu3=m74&videoid=127

domenica 20 settembre 2015

uno dei nemici: lo spirito d'impurità

Ma il diavolo, che odia il bene ed è invidioso, 
non sopportò di vedere in un giovane tale proposito di vita 
e incominciò a mettere in opera anche contro di lui i suoi intrighi abituali. 

Per prima cosa cercò di distoglierlo dall’ascesi 
ispirandogli il ricordo delle ricchezze, 
la sollecitudine per la sorella, l’affetto per i parenti, 
l’amore per il denaro, il desiderio di gloria, 
il piacere di un cibo svariato e ogni altro godimento della vita. 

Infine gli suggeriva il pensiero di come sia aspra la virtù 
e quali fatiche richieda e gli metteva dinanzi 
la debolezza del corpo e la lunghezza del tempo. 
Insomma risvegliò nella sua mente una grande tempesta di pensieri, 
perché voleva distoglierlo dalla sua giusta decisione.

Ma come il Nemico si vide debole di fronte al proposito di Antonio 
e vide che era piuttosto lui a essere vinto dalla fermezza di Antonio, 
respinto dalla sua grande fede e abbattuto dalle sue continue preghiere, 
allora confidò in quelle armi che si trovano presso l’ombelico e se ne gloriò 
– sono queste le prime insidie contro i giovani–. 

Assale così il giovane turbandolo di notte, 
molestandolo di giorno al punto che quelli che lo vedevano 
si accorgevano della lotta che si combatteva tra i due. 

L’uno, infatti, suggeriva pensieri impuri, l’altro li scacciava con le preghiere; 
l’uno lo eccitava, l’altro, come arrossendo di vergogna, 
dava forza al suo corpo mediante la fede e i digiuni. 

Il diavolo, sciagurato, di notte assumeva anche l’aspetto di una donna 
e ne imitava il comportamento in tutte le maniere, 
con il solo intento di sedurre Antonio. 

Ma questi, pensando a Cristo e meditando sulla nobiltà 
che l’uomo possiede grazie a lui e sulla qualità spirituale dell’anima, 
spegneva il fuoco della sua seduzione. 

Di nuovo il Nemico gli suggeriva la dolcezza del piacere, 
ma Antonio, come adirato e addolorato, 
pensava alla minaccia del fuoco e al tormento del verme, 
opponeva questi pensieri alle tentazioni del Nemico 
e passava attraverso di esse senza patirne danno.

Tutto questo accadeva a vergogna del Nemico. 
Colui che pensava di farsi simile a Dio, infatti, 
veniva deriso da un giovane ragazzo; 
colui che si gloriava contro la carne e il sangue, 
era abbattuto da un uomo rivestito di carne perché il Signore, 
che si rivestì di carne per noi e che diede al corpo la vittoria sul diavolo, aiutava Antonio. 
Perciò ciascuno di quelli che così combattono può dire: 
Non io, ma la grazia di Dio che è con me.

Infine il drago, poiché non era riuscito a far cader Antonio 
neppure in questo modo e vedeva che invece era lui a essere respinto dal suo cuore, 
digrignando i denti, come sta scritto e come fuori di sé, 
gli apparve quale egli è spiritualmente, nelle sembianze di un ragazzo nero. 

Come se gli fosse sottomesso, non lo assaliva più con i pensieri 
– l’ingannatore, infatti, era stato scacciato – 
ma usando la voce umana gli diceva: 
« Molti ho tratto in inganno, la maggior parte li ho abbattuti, 
ma ora che ho affrontato te e le tue fatiche come ho fatto con molti altri, 
sono ridotto all’impotenza ». 

Poi, quando Antonio gli chiese: « Chi sei tu che così mi parli? », 
subito gemeva dicendo: « Io sono amico dell’impurità; 
mi sono incaricato di insidiare ed eccitare i giovani per spingerli ad essa. 

Mi chiamano spirito d’impurità. 

Quanti, che volevano vivere castamente, sono riuscito a ingannare! 
Quanti, che vivevano in castità, ho dissuaso con le mie istigazioni! 
Io sono colui a causa del quale il profeta rimprovera quelli che sono caduti dicendo: 
Vi siete lasciati sviare da uno spirito di impurità; 
a causa mia furono gettati a terra. 
Io solo colui che spesso ti ha molestato 
e che altrettante volte si è visto respinto da te ».

Antonio allora rese grazie al Signore, 
si fece coraggio contro il Nemico e gli disse: 
« Grande disprezzo ti meriti; sei nero nell’animo e debole come un ragazzo. 
Non ho più motivo di preoccuparmi per te. 
Il Signore è il mio aiuto e io disprezzerò i miei nemici ». 
All’udir questo quel ragazzo nero se ne fuggì 
spaventato da quelle parole 
temendo anche solo di avvicinarsi a tale uomo.

http://www.monasterovirtuale.it/i-dottori-della-chiesa/s.-atanasio-vita-di-antonio.html

sabato 19 settembre 2015

mezzo incitrullito ... dotto e intelligente

Ma Giuseppe, che palesava essere un mezzo incitrullito, 
fu rimandato a casa. 
I coetanei, quelli più aspri e pungenti, 
non mancarono di affibiargli il soprannome di 
“Pippi boccaperta” 
per averlo sorpreso più volte con la bocca semichiusa 
e le braccia aperte in forma di croce 
dinanzi alle immagini sacre della chiesa di San Francesco. 

In realtà, questo era il preludio delle sue mistiche ascensioni.

Più tardi si rivolse ai Riformati di Casole, 
ma nemmeno questi vollero saperne della sua vocazione. 
Non rimanevano che i Cappuccini dove fu accettato in qualità di fratello laico. 
Stette prima a Copertino e poi a Martina Franca, 
dove fu mandato per l’anno di noviziato. 
Qui vestì il saio e lo chiamarono fra Stefano. 
Era il 1620. 
Un giorno, però, il maestro di noviziato lo chiamò 
per dirgli di tornare al mondo perché non era vocato per quell’Ordine 
in quanto cagionevole di salute, sempre distratto 
al punto da apparire un pò demente. 
Amareggiato, deluso, scalzo e seminudo 
partì da Martina Franca per raggiungere la sua Copertino.

[...]

La sua povertà, ma soprattutto la fama 
dell’indiscutibile carica umanitaria, 
la sua eccezionale fede religiosa e i suoi prodigi 
superarono i confini cittadini e quelli provinciali. 
La sua prima levitazione è documentata il 4 ottobre 1630 
al rientro in chiesa della processione di San Francesco. 
Giuseppe, infatti, si sollevò da terra fino all'altezza del pulpito, 
immobile sotto gli occhi di una folla in delirio. 
Da allora la sua vita cambiò. Le estasi divennero sempre più frequenti.

[...]

A Giuseppe obbedivano non solo gli uomini, ma anche gli animali. 
Cominciò a profondere miracoli 
i quali si pubblicano per la prima volta da Domenico Andrea Rossi nel 1767. 
Il Ministro Generale dei Minori Conventuali, infatti, 
in quell'anno, per i torchi di Giovanni Zampei, dette alle stampe il 
“Compendio della vita, virtù e miracoli di S. Giuseppe di Copertino”. 
Ma la diffusione dei suoi miracoli non tardò a richiamare 
l’attenzione del Sant'Offizio di Napoli. 
Le accuse partirono da Giovinazzo dove il Nostro, 
al termine di una levitazione fu accusato di truffa.
Sicchè il 26 maggio 1636 partì l’accusa formale. 
Secondo la procedura il fascicolo fu inviato a Roma 
dove la commissione cardinalizia del tribunale inquisitoriale 
discusse il caso.

Nel 1638 a Napoli iniziò il suo calvario. 
In attesa di nuove prove di santità fu deciso di tenerlo segregato 
e fu mandato esule e triste ad Assisi. 
Era il 1643 e i suoi miracoli si susseguivano anche in Assisi 
dove gli fu consegnata la cittadinanza onoraria. 
Era il 4 agosto del ’43. 
Ad Assisi padre Giuseppe visse quattordici anni 
e rivelò anche in quella città le sue doti profetiche 
tra cui la morte di Urbano VIII anticipata tre giorni prima. 
Ultimo carisma fu quello della scienza. 
Semplice di lingua, zoppicante in calligrafia, trepido nella lettura, 
ma quando parlava di Dio 
“aveva tanta fecondia nei discorsi teologici 
che pareva dotto e intelligente”.

http://www.sangiuseppedacopertino.it/home/la-storia/san-giuseppe-da-copertino/

mercoledì 9 settembre 2015

"la seconda tavola dopo il naufragio"

Gli innocenti sono migliori dei penitenti, 
perché, al dire di S. Girolamo, 
"la penitenza è la seconda tavola dopo il naufragio". 
Dio invece ama più i penitenti degli innocenti; 
perché di essi più si rallegra. Infatti si legge nel Vangelo: 
"Vi dico che vi sarà più festa in cielo per un peccatore pentito, 
che per novantanove giusti, che non abbisognano di penitenza". 
Dunque non sempre Dio ama le cose migliori.

[...]

È necessario affermare, stando a quel che si è già detto, 
che Dio ama di più le cose migliori. 
Abbiamo spiegato infatti che per Dio 
amare di più un essere non vuol dire altro che 
dare a quest'essere un bene più grande, 
essendo la volontà di Dio la causa della bontà nelle cose. 
E quindi, proprio per questo vi sono delle cose migliori, 
perché Dio vuole ad esse un bene maggiore. 
Di qui la conseguenza che le cose migliori Dio le ama di più.

[...]

La natura umana assunta dal Verbo di Dio 
nella Persona del Cristo è amata da Dio più di tutti gli angeli: 
ed è più nobile specialmente a causa dell'unione (ipostatica). 
Ma, parlando della natura umana in generale, 
e paragonandola alla natura angelica 
quanto all'ordine della grazia e della gloria, vi è parità, 
perché, come è detto nell'Apocalisse, 
"una stessa misura è per l'uomo e per l'angelo"; 
in maniera, però, che, sotto questo aspetto 
alcuni angeli risultano superiori a certi uomini, 
e alcuni uomini superiori a certi angeli. 
Se si parla però della loro condizione naturale, 
l'angelo è superiore all'uomo. 
E perciò se Dio ha assunto la natura umana, 
non è perché assolutamente parlando amasse di più l'uomo, 
ma perché questi era più bisognoso. 
Ha fatto come un buon padre di famiglia, 
il quale dà ad un servo malato 
un cibo più costoso che ad un figlio sano.

[...]

I penitenti e gli innocenti si possono trovare 
(confrontati tra di loro) reciprocamente in vantaggio e in svantaggio. 
Penitenti o innocenti, 
sono migliori e maggiormente amati 
quelli che hanno la grazia in maggiore abbondanza. 
Tuttavia, a parità di condizioni, l'innocenza è migliore 
e da Dio è maggiormente amata. 
Ma si dice che Dio fa più festa per un penitente che per un innocente, 
perché, di solito, i peccatori pentiti risorgono 
più cauti, più umili e più fervorosi. 

Per questo S. Gregorio può affermare che 
"il capitano preferisce nel combattimento un soldato che, 
dopo esser fuggito, è ritornato e incalza fortemente il nemico, 
ad uno che mai è fuggito, ma neppure ha compiuto atti di eroismo". 
- Si può anche addurre un'altra ragione, 
e cioè che un uguale dono di grazia è maggiore 
in rapporto a un penitente il quale meritò una punizione, 
che in rapporto a un innocente il quale non l'ha meritata. 
Così, cento marchi costituiscono un regalo più grande 
se si danno ad un povero, che se si danno ad un re.

San Tommaso d'Aquino, Summa teologica I, q. 20, a. 4

martedì 1 settembre 2015

la possibilità di non morire

Se la caratteristica dell’immortalità 
non appartiene per sé alla natura umana, 
come è possibile che l’uomo sia immortale? 
O che è lo stesso, è possibile che l’immortale diventi mortale?

A queste domande Agostino così risponde: 
la possibilità riposa sul fatto che ci sia un essere che, 
nello stesso tempo, sia Creatore e creatura, 
Immortale per sé e mortale per accidens, 
cioè che abbia in sé le proprietà specifiche dei due esseri, 
quello divino e quello umano . 

Al pensiero che un Dio diventi uomo e un uomo diventi Dio, 
l’uomo smarrisce il suo orientamento 
e si affida unicamente alla logica del mistero.

Di fronte a questo quesito, 
i Padri sono dell’avviso che il mistero 
per realizzarsi deve seguire la logica di Dio, 
e cioè che Dio diventi prima uomo, 
e poi l’uomo può diventare Dio, perché non è possibile che l’uomo, 
per sé è mortale, diventi da solo Dio. 
E’ necessario prima che Dio, per sé immortale, diventi uomo, 
così che l’uomo possa essere elevato alla dignità divina 
e quindi anche alla caratteristica dell’immortalità.

Così infatti scrive Ireneo: 
«Per il fatto che il Verbo di Dio si è fatto uomo, 
egli è contemporaneamente Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, 
affinché l’uomo, unito al Verbo di Dio 
e ricevendo l’adozione, diventa Figlio di Dio» .

[...]

In altri termini, se Dio ha deciso nella sua liberissima volontà 
di elevare l’uomo alla gloria e quindi all’immortalità, 
doveva anche fornire il mezzo adatto per conseguirla, 
cioè metterlo nelle condizioni oggettive 
di poter raggiungere con la grazia il suo fine ultimo. 

Unico mezzo possibile è quello dell’unione ipostatica, 
per la quale Dio assume l’uomo 
e l’uomo può diventare Dio nella Persona che lo personalizza. 
Solo attraverso l’unione ipostatica tra Dio e uomo 
c’è scambio di caratteristiche essenziali, come quella dell’immortalità. 
L’immortalità per sé del Verbo 
viene comunicata anche alla natura umana, 
personalizzata dalla Persona del Verbo.

[...]
La natura umana di Cristo, perciò, non diviene per sé immortale, 
ma, conservando la sua mortalità, acquista l’esigenza all’immortalità.
Tale interpretazione poggia sulle testimonianze dei Padri.

[...]

l’uomo è stato creato mortale o immortale?
A questo delicato quesito, i Padri sono unanimi 
nel ritenere che Adamo, e in lui ogni uomo, 
non fu creato né mortale né immortale, 
ma fu creato indifferente, 
cioè nella natura per sé mortale Dio ha posto un seme per sé immortale, 
e tutto dipendente dalla scelta di Adamo o dell’uomo. 

Il “seme d’immortalità” è dato dall’”immagine” a Cristo. 
E poiché non si può ammettere in Dio un prima e poi, 
se non soltanto a livello logico, si deve concludere dicendo 
che Adamo si è costituito nella sua realtà ontologica, 
mortale o immortale, 
in forza della sua scelta di fede radicale fatta a Cristo. 

Nell’uomo, l’immagine di Cristo può dirsi “naturale”, 
in quanto è stata inserita nella natura e con la natura, 
all’istante della creazione, e non dalla natura; 
e anche “soprannaturale”, in quanto insieme all’anima 
costituisce la stessa naturale natura umana. 

Ciò significa che la prima grazia santificante 
non trasformava la natura umana da mortale a immortale, 
ma le concedeva soltanto la possibilità di non morire.

Il Verbo, assumendo la natura umana, 
si è fatto in tutto simile all’uomo eccetto il peccato, 
cioè ha assunto un corpo “mortale” per legge di natura, 
ma “immortale” per l’immagine di Cristo. 

Cristo, pertanto, aveva la possibilità di non morire, 
eppure ha voluto subire l’umiliazione della morte, 
per sconfiggere la stessa morte con e nella sua morte libera e volontaria. 
Onde Paolo può scrivere: 
«La morte è stata ingoiata per la vittoria» .

In breve, la realtà dell’immortalità alla luce di Cristo 
si rivela un vero e proprio mistero. 
Solo per Cristo le creature partecipano dell’immortalità. 
E poiché l’immortalità è prerogativa esclusiva della divinità, 
le creature vi partecipano soltanto in forza dell’unione ipostatica. 
Cristo partecipa all’uomo l’immagine sua di Dio, 
da cui scaturisce l’immortalità e la beatitudine. 
Pur ricevendo l’immortalità, 
non tutte le creature ricevono la beatitudine finale.

http://www.centrodunsscoto.it/Il_Cristocentrismo_di_Giovanni_Duns_Scoto.htm