giovedì 30 giugno 2016

abiti necessari?


Sembra che gli abiti non siano necessari. Infatti:

1. Gli abiti, come si è detto [a. 2], 
sono qualità mediante le quali un essere 
viene disposto bene o male in rapporto a un fine.

Ora, gli esseri sono disposti bene o male dalla loro forma: 
infatti una cosa è bene ed è ente in forza della sua forma.

Quindi non c'è alcun bisogno di abiti.

2. L'abito dice ordine all'operazione.

Ma la potenza indica già a sufficienza un principio operativo: 
infatti anche le potenze naturali sprovviste di abiti 
sono principio dei loro atti.

Quindi non è necessario che ci siano gli abiti.

3. L'abito è per il bene e per il male come la potenza; 
e come la potenza non sempre agisce.

Dal momento quindi che ci sono le potenze, 
è superfluo ammettere l'esistenza di abiti.

In contrario: 

Come insegna Aristotele [Phys. 7, 3], 
gli abiti sono delle perfezioni.

Ma la perfezione è la cosa più necessaria, 
avendo essa natura di fine.

Quindi è necessario che esistano gli abiti.

Rispondo: 

Come si è già notato [aa. 2, 3], 
l'abito implica una disposizione buona o cattiva 
in ordine alla natura di un dato essere, 
e alla sua operazione o al suo fine.

Ora, perché una cosa richieda di essere predisposta 
in rapporto a un'altra si richiedono tre condizioni.

Primo, che la cosa ricevente la disposizione 
sia diversa da quella a cui viene disposta; 
e così si trovi ad avere con essa 
il rapporto che c'è tra la potenza e l'atto.

Se esiste quindi un essere 
la cui natura non sia composta di potenza e di atto, 
e la cui essenza si identifichi con la sua operazione, 
e che sia fine a se stesso, 
tale essere non può avere alcun abito o disposizione: 
il che è evidente nel caso di Dio.

Secondo, si richiede che quanto è in potenza rispetto all'altro termine 
possa essere determinato in più modi, 
e in rapporto a termini diversi.

Se quindi la potenza di una cosa è ristretta a un unico termine, 
non potrà aver luogo in essa la disposizione o l'abito: 
poiché tale soggetto ha dalla natura 
il debito orientamento verso tale atto.

Per cui un corpo celeste, pur essendo composto di materia e forma, 
dal momento che non ha una materia in potenza ad altre forme, 
come si è visto nella Prima Parte [q. 66, a. 2], 
non ammette una disposizione o un abito rispetto ad altre forme, 
e nemmeno rispetto ad altre operazioni: 

poiché la natura del corpo celeste 
è in potenza soltanto a un unico moto determinato.

Terzo, si richiede che concorrano più elementi 
a disporre il soggetto verso uno dei termini ai quali è in potenza, 
e che questi possano contemperarsi in diverse maniere, 
così da disporlo bene o male rispetto alla forma o all'operazione.

Per cui le qualità primordiali degli elementi, 
che appartengono alla natura di questi in una sola maniera determinata, 
non possono essere denominati disposizioni o abiti, ma qualità semplici: 

denominiamo invece disposizioni o abiti la salute, 
la bellezza e altre cose consimili, 
che implicano una proporzione di più elementi, 
i quali possono venire contemperati in vari modi.

Per cui il Filosofo [Met. 5, 20] scrive che 
"l'abito è una disposizione", 
e la disposizione è "l'ordine di un essere composto di parti, 
o secondo il luogo, o secondo la potenza, o secondo la specie"; 
come sopra [a. 1, ad 3] abbiamo spiegato.

Ora, essendo molti gli esseri la cui natura 
e le cui operazioni esigono il concorso di molti elementi 
che possono contemperarsi in più modi, 
dobbiamo ammettere la necessità degli abiti.

Soluzione delle difficoltà:

1. La natura di una cosa deve la sua perfezione alla forma, 
ma è necessario che il soggetto sia predisposto 
in ordine a tale forma mediante una disposizione.

Tuttavia la forma stessa a sua volta 
viene ordinata all'operazione, la quale o è il fine, 
o è un mezzo per il fine.

Se poi la forma non ha che un'unica operazione determinata, 
allora non si richiede altra disposizione 
per operare all'infuori della forma.

Se invece si tratta di una forma la quale, 
come l'anima, può operare in più modi, 
allora è necessario che venga disposta a operare mediante certi abiti.

2. Talora la potenza dice ordine a più cose: 
per cui è necessario che venga determinata in un dato modo.

Se invece prendiamo una potenza che non dice ordine a più cose, 
allora essa non ha bisogno di un abito che la determini, 
come si è già detto [nel corpo].

Per questo le potenze naturali 
non compiono le loro operazioni con l'aiuto di abiti: 
poiché per se stesse sono determinate a un unico atto.

3. Come vedremo in seguito [q. 54, a. 3], 
l'abito che ha per oggetto il bene 
non è identico a quello che ha per oggetto il male. 
Invece è identica la potenza per il bene e per il male.

Perciò gli abiti sono necessari per determinare le potenze al bene.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, I-II, q. 49, a. 4

lunedì 27 giugno 2016

molte intelligenze ... molte verità

In un certo senso esiste un'unica verità, 
per la quale tutte le cose sono vere, 
mentre non è così in un altro senso. 

Per vederlo chiaramente bisogna sapere che 
quando un attributo viene affermato di più cose univocamente, 
si trova in ciascuna di esse secondo la sua propria nozione, 
come animale in ogni specie di animali. 

Quando invece un attributo viene affermato 
di più soggetti analogicamente, 
allora esso si trova secondo la sua propria nozione 
in uno solo, dal quale tutti gli altri vengono denominati:

p. es. sano si dice dell'animale, 
dell'orina e della medicina, 
in modo che l'attributo della sanità 
non si trova nel solo animale,

ma dalla sanità dell'animale è denominata 
sana la medicina in quanto è causa di tale sanità, 
e sana l'orina in quanto ne è il segno. 

E sebbene la sanità non sia nella medicina 
e neppure nell'orina, 
tuttavia nell'una e nell'altra vi è qualcosa 
per cui l'una produce e l'altra significa la sanità. 

Ora, sopra [a. 1] si è detto che la verità 
primariamente è nell'intelletto
e secondariamente nelle cose
in quanto dicono ordine all'intelligenza divina. 

Se dunque parliamo della verità in quanto, 
secondo la sua nozione propria, 
è nell'intelletto, allora, 
dato che esistono molte intelligenze create, 
vi sono anche molte verità;

e anche in un solo e medesimo intelletto 
vi possono essere più verità, 
data la pluralità degli oggetti conosciuti. 

Per tale motivo la Glossa, sulle parole del Salmo [11, 2] 
"le verità sono diminuite tra i figli degli uomini", 
fa questo rilievo: 

come da un solo volto di uomo risultano 
più immagini nello specchio, 
così dall'unica verità divina risultano più verità. 

Se invece parliamo della verità in quanto è nelle cose, 
allora tutte le cose sono vere in forza dell'unica prima verità, 
alla quale ciascuna di esse 
si conforma nella misura del proprio essere. 

E così, sebbene siano molteplici le essenze o forme delle cose, 
tuttavia unica è la verità dell'intelletto divino, 
secondo la quale tutte le cose sono dette vere. 

La nostra anima non giudica di tutte le cose 
secondo una qualsiasi verità, ma secondo la verità prima, 
in quanto essa si riflette nell'anima, 
attraverso i princìpi intellettivi, come in uno specchio.

E da ciò consegue che la verità prima è superiore all'anima. 

Tuttavia anche la verità creata che è nel nostro intelletto
è superiore alla nostra anima, non assolutamente, 
ma relativamente, in quanto è una sua perfezione: 
come anche la scienza potrebbe dirsi superiore all'anima. 

È vero però che nessun ente sussistente 
è superiore alla mente razionale, all'infuori di Dio.

L'affermazione di S. Anselmo è giusta nel senso 
che le cose si dicono vere 
in rapporto all'intelligenza divina.


San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, I, q. 16, a. 6

martedì 14 giugno 2016

il male: finito o infinito?

... il male non può distruggere totalmente il bene. 

E per averne l’evidenza bisogna considerare 
che il bene è di tre specie. 
C’è quello che viene completamente eliminato dal male: 
e questo è il bene direttamente opposto a quel dato male: 
come la luce viene totalmente eliminata dalle tenebre, 
e la vista dalla cecità. 

C’è un altro bene, invece, 
che non solo non è eliminato totalmente dal male, 
ma neppure ne resta menomato: 
ed è quello che costituisce il soggetto del male: 
infatti al sopraggiungere delle tenebre 
la sostanza dell’aria non subisce minorazioni. 

C’è infine un bene che viene a essere menomato dal male 
senza esserne eliminato completamente: 
e questo bene è l’attitudine di un soggetto verso atti determinati. 

Ora, la diminuzione di questo bene 
non deve essere concepita come una sottrazione, 
come avviene nella quantità, ma come un indebolimento, 
nel modo in cui si verifica la diminuzione delle qualità e delle forme. 

E l’indebolimento di questa attitudine 
va concepito come il contrario della rispettiva intensificazione. 
Infatti questa attitudine viene a essere intensificata 
per mezzo delle disposizioni, 
da cui la materia è preparata all’atto; 

disposizioni che quanto più si moltiplicano in un soggetto, 
tanto più lo rendono adatto a ricevere la perfezione e la forma. 

Viene invece a rilassarsi a causa delle disposizioni contrarie; 

che quanto più si moltiplicano nella materia 
e quanto più sono intense, 
tanto più fanno diminuire la potenzialità rispetto all’atto. 

Se quindi le disposizioni contrarie 
non si possono moltiplicare e intensificare all’infinito, 
ma solo fino a un certo punto, non si potrà neppure 
diminuire e indebolire all’infinito l’attitudine suddetta. 

Come è evidente per le qualità attive e passive degli elementi: 
infatti il freddo e l’umido, da cui dipende 
la diminuzione e l’indebolimento dell’attitudine della materia al fuoco, 
non si possono moltiplicare all’infinito. 

– Se invece si possono moltiplicare all’infinito 
le disposizioni contrarie, 
allora anche la predetta attitudine 
diminuirà e si indebolirà all’infinito. 

Tuttavia non verrà mai a essere del tutto eliminata: 
poiché resta nella sua radice, che è la sostanza del soggetto. 

Se per es. si interponessero tra il sole e l’aria infiniti corpi opachi, 
si diminuirebbe all’infinito l’attitudine dell’aria alla luce, 
ma non la si eliminerebbe totalmente, perché rimane l’aria, 
che per natura è trasparente [alla luce]. 

E allo stesso modo si può verificare un’addizione nei peccati, 
per cui l’attitudine dell’anima alla grazia viene sempre più a diminuire; 
i quali peccati sono come degli ostacoli interposti tra noi e Dio, 
secondo il detto di Isaia: 
"Le vostre iniquità hanno scavato un abisso tra voi e il vostro Dio". 

E tuttavia non viene distrutta completamente 
nell’anima la predetta attitudine: 
poiché deriva dalla sua stessa natura. 


Soluzione delle difficoltà: 

1. Quel bene che è direttamente opposto al male 
viene eliminato completamente, 
ma non vengono soppressi totalmente gli altri beni, 
come si è detto. 

2. L’attitudine di cui si è parlato sta in mezzo tra il soggetto e l’atto. 
E così in rapporto all’atto viene a essere menomata dal male, 
ma in rapporto al soggetto rimane inalterata. 
Quindi, nonostante che il bene in sé considerato sia omogeneo, 
tuttavia, dati i suoi rapporti con realtà diverse, 
può essere distrutto non totalmente, ma solo in parte. 

3. Alcuni, immaginando la diminuzione del bene 
di cui ora si è parlato alla maniera della diminuzione di una quantità, 
rispondevano che, come si può dividere all’infinito 
una quantità continua praticando la divisione 
secondo una data proporzione 
(p. es. prendendo sempre la metà della metà, 
oppure un terzo di un terzo), 
così avviene nel caso presente. 

– Ma questa ragione qui non vale. 

Poiché nella suddivisione 
fatta secondo una data proporzione si sottrae 
[successivamente] una quantità sempre minore: 
infatti la metà della metà è meno della metà dell’intero. 

Invece il secondo peccato non [sempre] rovina meno del primo 
l’attitudine di cui si è parlato, ma forse ugualmente, o anche di più. 

Bisogna perciò affermare che questa attitudine, 
sebbene sia qualcosa di finito, può tuttavia diminuire, 
non per se stessa, ma indirettamente, all’infinito, 
nella misura in cui le disposizioni contrarie aumentano anch’esse all’infinito, 
nel modo che abbiamo indicato.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, I, q. 48, a. 4

domenica 12 giugno 2016

la pecora e il lupo: l'odio universale


Una cosa può essere odiata nella sua universalità? 
Sembra di no. Infatti: 

1. L’odio è una passione dell’appetito sensitivo, 
derivato dalla conoscenza dei sensi. 
Ma i sensi non possono conoscere l’universale. 
Quindi non si può odiare una cosa nella sua universalità. 

2. L’odio è causato da una discordanza, 
la quale si oppone all’idea di comunanza. 
Ma quest’ultima è implicita nel concetto di universale. 
Quindi non si può odiare una cosa nella sua universalità. 

3. Oggetto dell’odio è il male. 
Ora, come insegna Aristotele,
 «il male è nelle cose, non nella mente». 

Siccome dunque l’universale è soltanto nella mente, 
che lo astrae dal particolare, 
sembra che l’odio non possa avere 
per oggetto un universale. 

In contrario: il Filosofo dice: 
«L’ira si rivolge sempre ai singolari, 
l’odio invece investe anche il genere: 
tutti infatti odiano il ladro e il calunniatore». 

Risposta: 

si può parlare dell’universale in due modi: 
primo, insistendo sulla stessa intenzione di universalità; 
secondo, considerando la natura a cui tale intenzione è attribuita: 

infatti è diversa la considerazione 
dell’universale uomo e dell’uomo in quanto uomo. 

Se quindi prendiamo l’universale nel primo modo, 
allora nessuna potenza della parte sensitiva, 
né conoscitiva né appetitiva, può raggiungerlo: 
poiché l’universale è dovuto 
all’astrazione dalla materia individuale, 
nella quale invece è radicata ogni facoltà sensitiva. 
[Prendendo invece l’universale nel secondo modo], 
una potenza sensitiva di apprensione o di appetizione 
può avere una predisposizione universale verso un oggetto. 

Come diciamo che l’oggetto della vista è il colore in genere, 
non perché la vista conosca il colore nella sua universalità, 
ma perché la conoscibilità del colore 
da parte della vista non gli è dovuta 
in quanto è questo colore particolare, 
ma semplicemente in quanto è un colore. 

Così dunque anche l’odio della parte sensitiva 
può avere per oggetto una cosa nella sua universalità: 

infatti un dato essere può contrapporsi all’animale 
per la sua natura in genere, come il lupo alla pecora, 
e non solo in quanto particolare.

Quindi la pecora odia il lupo in generale. 

L’ira invece è sempre causata da qualcosa di particolare: 
poiché deriva da un atto nocivo, 
e gli atti appartengono a soggetti particolari. 

Quindi il Filosofo scrive che 
«l’ira si rivolge sempre ai singolari, 
mentre l’odio può riguardare anche la cosa nel suo genere». 

Invece l’odio esistente nella parte intellettiva 
può raggiungere l’universale nell’uno e nell’altro modo, 
poiché dipende dalla conoscenza universale dell’intelletto. 

Soluzione delle difficoltà:
1. Il senso non conosce l’universale in quanto universale, 
tuttavia può conoscere cose atte 
a ricevere l’universalità mediante l’astrazione. 

2. Non può essere motivo di odio ciò che è comune a tutti. 

Ma nulla impedisce che una cosa, 
pur essendo comune a molti uomini, 
si trovi tuttavia in dissonanza con altri, 
e perciò sia odiosa a questi ultimi. 

3. La difficoltà è valida per l’universale 
considerato sotto l’intenzione di universalità: 
in questo caso infatti esso non è oggetto 
né della conoscenza né dell’appetito sensitivo.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, I-II, q. 29, a. 6

mercoledì 8 giugno 2016

la virtù infusa e i pochi mezzi


Perché l’atto di una facoltà inferiore sia perfetto 
si richiede la perfezione non soltanto nelle facoltà superiori,
ma anche in quelle inferiori: 
infatti, anche se l’agente principale è debitamente disposto, 
non può seguirne un’azione perfetta 
se manca la buona disposizione dello strumento. 

Ora, affinché l’uomo operi il bene 
rispetto alle cose ordinate al fine, 
è necessario che abbia non solo la virtù 
che lo dispone bene riguardo al fine stesso, 
ma anche le virtù atte a ben disporlo alle azioni ordinate al fine: 
poiché la virtù che ha per oggetto il fine 
è come principale e movente rispetto a quelle che sono ordinate al fine. 

Perciò assieme alla carità 
è necessario avere anche le altre virtù morali. 

Capita talvolta, per una difficoltà nata dall’esterno, 
che chi possiede un abito provi difficoltà nell’operare, 
e quindi non senta piacere e compiacimento nell’atto: 

è il caso p. es. di chi, avendo l’abito della scienza, 
per la sonnolenza o per una infermità 
prova difficoltà nell’intendere. 

E allo stesso modo talora gli abiti delle virtù morali infuse 
risentono una certa difficoltà nell’operare 
a causa di certe disposizioni contrarie lasciate dagli atti precedenti. 

Difficoltà che invece non si riscontra 
allo stesso modo nelle virtù morali acquisite: 
poiché mediante l’esercizio degli atti con cui queste vengono acquisite 
vengono anche tolte le disposizioni contrarie. 

Si dice che alcuni santi non hanno certe virtù 
a motivo delle difficoltà che provano nei corrispettivi atti, 
per il motivo indicato sopra; 
sebbene essi abbiano l’abito di tutte le virtù.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, I-II, q. 65, a. 3

lunedì 6 giugno 2016

liberi ... tra angeli e demoni


Una cosa può essere causa di un‘altra in due modi: 
direttamente o indirettamente. 

Indirettamente, come un agente 
che produce una disposizione previa a un dato effetto 
è occasionalmente e indirettamente causa di quell'effetto:

come se si dicesse che chi ha fatto seccare la legna 
è causa della sua  combustione. 

E in questo senso bisogna affermare che 
il diavolo è la causa di tutti i nostri peccati: 

perché fu lui a istigare al peccato il primo uomo, 
dal cui peccato derivò a tutto il genere umano 
una certa propensione a ogni sorta di peccato. 

E in questo senso vanno intese le parole 
del Damasceno e di Dionigi [cf. ob. 1].

Una cosa è invece causa diretta di un‘altra 
quando concorre direttamente a produrla. 
E in questo senso il diavolo non è la causa di ogni peccato: 

per la ragione che non tutti i peccati sono commessi 
dietro istigazione del diavolo,
ma alcuni hanno origine dalla libertà dell‘arbitrio 
e dalla corruzione della carne. 

Infatti, come osserva Origene [Peri Arch. 3, 2], 
anche se non esistesse il diavolo gli uomini 
avrebbero ugualmente l‘appetito dei cibi, dei piaceri venerei 
e di altre simili cose sulle quali accadono, senza il freno della ragione,
molti disordini, specialmente in seguito alla corruzione della natura.

(Ma il tenere a freno e in ordine tale appetito è in potere del libero arbitrio).

Quindi non è affatto necessario che tutti i peccati 
provengano dalla suggestione del diavolo. 

Se però provengono da essa, allora gli uomini sono portati
a compierli «per il medesimo inganno che sedusse i nostri progenitori»,
come dice S. Isidoro [Sent. 3, 5].

Anche i peccati commessi senza istigazione del diavolo
rendono ugualmente gli uomini figli del diavolo, 
perché peccando imitano lui, che fu il primo peccatore.

L‘uomo può cadere nel peccato per opera propria, 
mentre non può assurgere al merito senza l‘aiuto divino, 
che gli viene somministrato per mezzo degli angeli. 

Quindi è vero che gli angeli cooperano a tutte le nostre opere buone, 
mentre non è vero che tutti i nostri peccati 
provengono dalle istigazioni
dei demoni. 

Sebbene non esista alcun genere di peccato che non provenga
talvolta dalle suggestioni diaboliche.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, I, q. 114, a. 3

domenica 5 giugno 2016

sensualità: profumo dell'anima


Il termine sensualità, di cui parla S. Agostino 
[De Trin. 12, cc. 12, 13], 
deriva dal moto dei sensi nel modo in cui il nome di una potenza
viene desunto dal suo atto, come la vista dal vedere. 

Ora, i moti del senso sono le appetizioni 
che seguono la conoscenza sensitiva. 

Infatti l‘atto della virtù conoscitiva 
non viene detto moto in maniera così propria come quello dell‘appetito: 
poiché le operazioni delle facoltà conoscitive si compiono 
in quanto le cose conosciute restano nel conoscente, 
mentre le operazioni delle facoltà appetitive 
si compiono col tendere dell‘appetente verso la cosa appetibile. 

E per questa ragione l‘operazione della potenza conoscitiva 
viene paragonata alla quiete, 
mentre quella della potenza appetitiva 
è più simile al moto. 

Parlando quindi di moti della sensibilità 
intendiamo le operazioni della facoltà appetitiva. 
Quindi il termine sensualità non è altro 
che il nome dell‘appetito sensitivo.

Quando S. Agostino scrive che il moto della sensualità 
si protende verso i sensi del corpo 
non intende dire che i sensi del corpo fanno parte della sensualità, 
ma piuttosto che quel moto è una tendenza verso i sensi del corpo, 
ossia che è un‘appetizione di quelle cose 
che sono percepite dai sensi. 

Quindi i sensi appartengono alla sensualità come suoi prerequisiti.

La sensualità rientra in un‘unica divisione 
con la ragione superiore e con quella inferiore 
in quanto vi è in comune l‘attitudine a muovere. 

Infatti la facoltà conoscitiva, 
alla quale appartengono la ragione superiore e quella inferiore, 
è principio di moto come l‘appetitiva, di cui fa parte la sensualità.

Il serpente non solo mostrò e propose il peccato [ai nostri progenitori], 
ma li spinse a compierlo. 

E la sensualità viene simboleggiata 
dal serpente proprio per questo.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, I, q. 81, a. 1

sabato 4 giugno 2016

tra la potenza e l'atto: l'intenzionalità


Essendo compito della memoria 
conservare le immagini delle cose non attualmente percepite, 
la prima cosa da considerare è se le specie intelligibili 
si possano conservare in tal modo nell‘intelletto. 
Avicenna [De anima 5, 6] lo riteneva impossibile. 

Diceva infatti che ciò si verifica nella parte sensitiva 
per alcune potenze perché queste sono atti di organi corporei, 
nei quali si possono conservare delle immagini 
senza bisogno di una percezione attuale. 

Invece nell‘intelletto, che manca di un organo corporeo,
nulla esiste se non come realtà pensata. 

È quindi necessario che quell‘oggetto
la cui immagine è presente all‘intelligenza 
sia sempre attualmente conosciuto. 

Così dunque, secondo Avicenna, 
non appena uno cessa dall‘intellezione attuale di una cosa, 
subito scompare dal suo intelletto l‘immagine di essa; 

e se vuole pensarla di nuovo ha bisogno di rivolgersi all‘intelletto agente,
che egli riteneva fosse una sostanza separata, 
affinché da esso derivino le specie intelligibili nell‘intelletto possibile.

Dall‘esercizio poi e dall‘uso di rivolgersi all‘intelletto agente 
rimarrebbe nell‘intelletto possibile,
secondo lui, una certa attitudine a rivolgersi all‘intelletto agente, 
attitudine che egli riteneva fosse l‘abito della scienza. 

Secondo questa opinione, dunque, 
nulla si conserverebbe nella parte intellettiva 
che non sia attualmente pensato. 
Per cui in questo modo non si può 
ammettere la memoria nella parte intellettiva.


Una tale opinione però urta chiaramente contro le parole di Aristotele. 

Infatti egli scrive [De anima 3, 4] 
che quando l‘intelletto possibile «è divenuto le singole cose, 
è conoscente come colui che lo è in atto 
(il che avviene quando può passare all‘atto da se stesso); 

e tuttavia anche allora è in qualche modo in potenza, 
ma non come lo era prima di avere appreso o di avere scoperto».

Si afferma cioè che l‘intelletto possibile 
diviene le singole cose nel senso che
riceve le specie delle singole cose. 

Dal fatto dunque di ricevere le specie intelligibili 
l‘intelletto riceve la capacità di passare all‘atto quando vuole, 

ma non di essere sempre in atto, 
poiché anche allora è in certo modo in potenza, 
benché in maniera diversa da prima che avesse inteso: 

cioè come colui che avendo un abito conoscitivo 
è in potenza all‘atto della conoscenza.

Ma la teoria di Avicenna è contraria anche alla ragione. 

Infatti ciò che viene ricevuto in un soggetto 
è ricevuto secondo la natura del ricevente. 

Ora, l‘intelletto è di natura più stabile e permanente 
che non la materia dei corpi.

Se dunque la materia conserva le forme 
che riceve non solo quando attualmente opera per loro mezzo, 
ma anche quando ha cessato di operare, in maniera molto più immobile 
e permanente riceverà le specie intelligibili l‘intelletto, 
sia che le riceva attraverso i sensi, 
sia che queste gli vengano comunicate da un intelletto superiore. 

Perciò, se per memoria intendiamo 
la sola capacità di conservare le specie intenzionali, 
bisogna concludere che essa si trova anche nella parte intellettiva.

Se invece si riduce il concetto di memoria alla facoltà 
che ha per oggetto il passato in quanto passato, 
allora la memoria non esiste nella parte intellettiva,
ma solo in quella sensitiva, 
che è fatta per conoscere i singolari. 

Infatti il passato come tale, indicando l‘esistenza [di una cosa] 
in un determinato tempo, partecipa la natura dei singolari.

La memoria, in quanto capacità di conservare le specie intenzionali, 
non è comune a noi e alle bestie. 

Infatti le specie intenzionali non sono conservate 
nella sola parte sensitiva dell‘anima, 
ma piuttosto nel composto [di anima e corpo]: 
poiché la memoria è l‘atto di un organo.

L‘intelletto invece è capace di conservare esso stesso 
le specie intenzionali senza l‘aiuto di un organo corporeo. 

Perciò il Filosofo [De anima 3, 4] dice che 
«l‘anima è il luogo delle specie, non tutta però, ma l‘intelletto».

Il passato si può riferire a due termini, 
cioè all‘oggetto conosciuto e all‘atto della conoscenza. 

Ora, i due aspetti sono uniti per quanto riguarda la parte sensitiva, 
la quale percepisce un oggetto per il fatto che viene a subire 
una trasmutazione da parte di un oggetto sensibile presente: 

e infatti l‘animale ricorda simultaneamente 
di avere prima sentito nel passato, 
e di avere sentito un oggetto sensibile passato. 

 Invece per ciò che riguarda la parte intellettiva 
il passato come passato è soltanto accidentale, 
e propriamente non interessa dal punto di vista dell‘oggetto. 

Infatti l‘intelletto conosce l‘uomo in quanto uomo:
ora, per l‘uomo in quanto tale 
è una pura accidentalità l‘esistere 
nel presente, nel passato o nel futuro. 

Però dal punto di vista dell‘atto si può dire che il passato
può riguardare direttamente anche l‘intelletto, come il senso. 

Infatti l‘intendere della nostra anima è un atto particolare [e concreto] 
che esiste in questo o in quel tempo, 
ed è così che l‘intellezione di un uomo la diciamo 
di ora, di ieri o di domani. 

E ciò non ripugna alla natura dell‘intelligenza: 
poiché, sebbene tale intellezione sia un fatto particolare [e concreto], 
tuttavia è un atto immateriale, 
come si è detto sopra [q. 76, a. 1] parlando dell‘intelletto. 

Come quindi l‘intelletto intende se stesso, 
benché sia un intelletto particolare, 
così intende la propria intellezione, che è un atto particolare 
esistente nel passato, nel presente o nel futuro. 
Concludendo: 

nell‘intelletto si salva il concetto di memoria come conoscenza del passato 
in quanto l‘intelletto conosce di avere già prima conosciuto o pensato; 
non [si salva] invece come conoscenza del passato 
nelle sue condizioni concrete di tempo e di luogo. 

Qualche volta la specie intelligibile si trova solo potenzialmente nell‘intelletto: 
e allora si dice che l‘intelletto è in potenza. 

A volte invece si trova nell‘intelletto secondo tutta la perfezione dell‘atto: 
e allora l‘intelletto intende attualmente. 

Altre volte infine è come in uno stadio intermedio tra la potenza e l‘atto: 
e allora si dice che l‘intelletto ha una conoscenza abituale. 

E proprio in questa maniera l‘intelletto 
conserva le specie intenzionali, 
anche quando attualmente non le pensa.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, I, q.79, a.6 

giovedì 2 giugno 2016

per analogia con i corpi


... l‘oggetto proprio dell‘intelletto umano unito al corpo 
sono le essenze o nature che hanno la loro sussistenza 
nella materia corporea; 

e mediante queste essenze delle realtà visibili 
l‘uomo può salire a una certa conoscenza delle realtà invisibili. 

Ora, la nozione stessa di queste nature esige che esse abbiano
concreta sussistenza in determinati individui; 
e ciò non può verificarsi senza la materia. 

Così la nozione della natura della pietra richiede 
la sussistenza concreta di essa in questa determinata pietra; 
e quella della natura del cavallo richiede
la sussistenza concreta in un dato cavallo, e così via. 

Non si può quindi conoscere
in maniera completa e vera la natura della pietra, 
o di qualsiasi altra realtà materiale, 
se non la si conosce nella sua esistenza particolare e concreta.

Ora, noi raggiungiamo il particolare mediante il senso e l‘immaginativa.

Quindi, affinché l‘intelletto possa conoscere il proprio oggetto, 
è necessario che si volga ai fantasmi, 
e apprenda così la natura universale esistente nel particolare. 

— Se invece l‘oggetto proprio del nostro intelletto fosse costituito
dalle forme separate, oppure se le nature delle realtà sensibili avessero
una loro sussistenza indipendentemente dagli enti particolari, 
come volevano i Platonici, 
allora non sarebbe necessario per il nostro intelletto volgersi 
ai fantasmi ogni volta che intende.


Le idee conservate nell‘intelletto possibile,
quando non c‘è intellezione attuale, esistono in esso allo stato di abiti, 
come si è spiegato [q. 79, a. 6]. 

Quindi la conservazione delle specie intelligibili
non basta per l‘intellezione attuale, 
ma è necessario che ce ne serviamo nel modo che conviene 
alle cose di cui sono le specie, 
le quali cose sono nature esistenti 
in enti particolari e concreti.

Il fantasma stesso è un‘immagine della cosa particolare, 
perciò l‘immaginativa non ha bisogno, 
come l‘intelletto, 
di un‘altra immagine del particolare.

Gli esseri immateriali, di cui non si possono avere dei fantasmi, 
sono conosciuti da noi per analogia con i corpi sensibili, 
di cui abbiamo i fantasmi.

Così noi conosciamo la verità [in astratto] 
considerando un oggetto qualsiasi 
di cui investighiamo la verità; 

conosciamo invece Dio quale causa [prima] 
per via di eminenza e di negazione, 
come insegna Dionigi [De div.nom. 1]; 
e anche le altre sostanze immateriali, nella vita presente, 
non possiamo conoscerle se non per via di negazione, 
o per una certa analogia con il mondo dei corpi. 

Quindi anche quando abbiamo una qualche idea di tali oggetti, 
che pure non possono avere fantasmi che li rappresentino, 
siamo nella necessità di rivolgerci ai fantasmi dei corpi.

S. Tommaso D'Aquino, Somma Teologica, q.84, a.7