domenica 27 dicembre 2015

quando l'altro è reale per noi

Il mostrarsi della realtà dell’altro 
coincide con la collaborazione con questa realtà in quanto teleologica, 
con la realtà di una tensione verso altro da sé.

Solo in questa collaborazione l’altro diviene reale per noi. 
Infatti, fintanto che egli resta per noi qualcosa di semplicemente disponibile, 
egli non è per noi ciò che egli è “in se stesso”:

noi possiamo renderci conto di che cosa significhi un io 
soltanto se viviamo come io, 
se cioè siamo istinto ma allo stesso tempo usciamo dalla nostra autoreferenzialità 
e percepiamo noi stessi come l’altro dell’altro, 
e l’altro, da parte sua, come alter ego.


Spaemann R. 2005, Persone. Sulla differenza tra qualcuno e qualcosa, 128,
a cura di L. A , Laterza, Roma-Bari

http://www.ricercafilosofica.it/epekeina/index.php/epekeina/article/download/26/19

domenica 13 dicembre 2015

cosa chiederò per Natale?


Dio dei Padri, Signore Misericordioso, Spirito di Verità,

io povera creatura, prostrata dinanzi alla tua Divina Maestà,
sono consapevole di trovarmi in estremo bisogno
della tua Divina Sapienza, che ho perduto con i miei peccati.

Fiducioso che manterrai fedelmente la promessa
di dare la Sapienza a quanti te la domanderanno,
senza esitare te la chiedo oggi
con viva insistenza e profonda umiltà.

Manda a noi, o Signore, questa Sapienza
che è sempre presente dinanzi al tuo trono e
racchiude tutti i tuoi beni.

Essa sostenga la nostra debolezza, illumini le nostre menti,
infiammi i nostri cuori, ci insegni a parlare ed agire
a lavorare e soffrire con te.
Diriga i nostri passi e colmi le nostre anime
delle virtù di Gesù Cristo e dei doni dello Spirito Santo.

Padre Misericordioso, Dio di ogni consolazione,
Per la bontà materna di Maria,
per il Sangue prezioso del tuo diletto Figlio,
per il tuo immenso desiderio di comunicare i tuoi beni
alle creature, ti chiediamo il tesoro infinito della tua Sapienza.

Ascolta ed esaudisci questa mia preghiera.
Amen.

S. Luigi Maria di Grignion, 
Preghiera per chiedere la Divina Sapienza

domenica 29 novembre 2015

L'amicizia fra disuguali: padre e figlio

Ci sono, poi, differenze anche nelle amicizie basate sulla superiorità: 
ciascuno dei due, infatti, pretende di ottenere di più, 
ma quando questo succede, l’amicizia si scioglie. 

Chi è più buono, infatti, pensa che gli si addica avere di più 
(giacché al buono si attribuisce di più); 
ma allo stesso modo pensa anche chi è più utile, 
giacché si dice che chi è inutile non dovrebbe avere una parte uguale; 
ne deriverà, infatti, un servizio gratuito e non un’amicizia, 
se i vantaggi tratti dall’amicizia non saranno rispondenti 
al valore dei benefici fatti. 

Si pensa, infatti, che, come in una società finanziaria 
ricevono di più quelli che hanno contribuito di più, 
così debba avvenire anche nell’amicizia. 

Ma chi è in condizioni di bisogno e di inferiorità pensa il contrario, 
giacché è proprio dell’amico buono soccorrere nel bisogno: 
che vantaggio c’è, dicono infatti, ad essere amico 
di un uomo di valore o di un potente, 
se non ci si può aspettare di ricavarne qualcosa? 

Sembra, dunque, che ciascuno dei due abbia una giusta pretesa, 
e che ciascuno debba ricavare dall’amicizia qualcosa più dell’altro, 
ma non della stessa cosa, bensì quello superiore più onore 
e quello bisognoso più guadagno: 

infatti, premio della virtù e della beneficenza è l’onore, 
mentre soccorso all’indigenza è il guadagno. 

Che le cose stiano così anche nelle costituzioni politiche è manifesto: 
infatti, non si onora colui che non procura alcun bene alla comunità, 
giacché a chi benefica la comunità si dà ciò che è comune, 
e l’onore è appunto bene comune. 

Infatti, non è possibile contemporaneamente 
arricchirsi a spese della comunità e riceverne onori. 

Nessuno, infatti, sopporta di avere di meno in tutti i casi: 
per conseguenza, a chi perde in ricchezza si attribuisce onore, 
e a chi ama ricevere si attribuisce ricchezza, 
giacché l’attribuzione secondo il merito 
ristabilisce l’uguaglianza e salva l’amicizia, come s’è detto. 

È, dunque, in questo modo che devono regolare i loro rapporti gli amici disuguali, 
e bisogna che chi ha ricevuto vantaggi in denaro o in virtù 
renda, in cambio, onore, restituendo quello che può. 

Infatti, ciò che l’amicizia richiede è il contraccambio possibile, 
non quello che sarebbe adeguato al merito, 
giacché ciò non sarebbe neppure possibile in tutti i casi, 
come nel caso degli onori da tributarsi agli dèi ed ai genitori: 

nessuno, infatti, potrebbe mai rendere loro il contraccambio adeguato, 
ma chi li venera secondo le sue possibilità è ritenuto uomo virtuoso. 

Per questo si riterrà che ad un figlio non è lecito ripudiare il padre, 
mentre al padre è lecito ripudiare il figlio: questi, infatti, essendo in debito, 
deve contraccambiare, ma, qualunque cosa un figlio faccia, 
non può fare nulla che uguagli il valore di ciò che ha ricevuto, 
cosicché rimane sempre debitore. 

Ai creditori, invece, e quindi al padre, è lecito rimettere un debito. 

Nello stesso tempo, però, si ritiene che nessuno ripudia un figlio 
se questi non è di una perversità eccessiva, giacché, 
anche a prescindere dall’amicizia naturale, 
è umano non rifiutare l’assistenza a un figlio. 

Sarà, invece, il figlio, se è malvagio, 
che potrà evitare o non preoccuparsi molto di aiutare il padre: 
infatti, i più vogliono ricevere del bene, ma evitano di farlo, 
perché non lo considerano vantaggioso. 

Quanto detto sull’argomento sia sufficiente.

Aristotele, Etica Nicomachea, Libro VIII
http://www.filosofico.net/eticaanicomaco8.htm

martedì 17 novembre 2015

azione internazionale: evitare la guerra

È chiaro pertanto che dobbiamo con ogni impegno 
sforzarci per preparare quel tempo nel quale, mediante l'accordo delle nazioni, 
si potrà interdire del tutto qualsiasi ricorso alla guerra. 

Questo naturalmente esige che venga istituita un'autorità pubblica universale, 
da tutti riconosciuta, la quale sia dotata di efficace potere 
per garantire a tutti i popoli sicurezza, 
osservanza della giustizia e rispetto dei diritti.

Ma prima che questa auspicabile autorità possa essere costituita, 
è necessario che le attuali supreme istanze internazionali 
si dedichino con tutto l'impegno alla ricerca dei mezzi più idonei 
a procurare la sicurezza comune. 

La pace deve sgorgare spontanea dalla mutua fiducia delle nazioni, 
piuttosto che essere imposta ai popoli dal terrore delle armi. 
Pertanto tutti debbono impegnarsi con alacrità 
per far cessare finalmente la corsa agli armamenti.

Perché la riduzione degli armamenti incominci realmente, 
non deve certo essere fatta in modo unilaterale, 
ma con uguale ritmo da una parte e dall'altra, 
in base ad accordi comuni e con l'adozione di efficaci garanzie.

Non sono frattanto da sottovalutare gli sforzi già fatti 
e che si vanno tuttora facendo per allontanare il pericolo della guerra. 

Va piuttosto incoraggiata la buona volontà di tanti 
che pur gravati dalle ingenti preoccupazioni del loro altissimo ufficio, 
mossi dalla gravissima responsabilità da cui si sentono vincolati, 
si danno da fare in ogni modo per eliminare la guerra, 
di cui hanno orrore pur non potendo prescindere 
dalla complessa realtà delle situazioni. 

Bisogna rivolgere incessanti preghiere a Dio 
affinché dia loro la forza di intraprendere con perseveranza 
e condurre a termine con coraggio quest'opera 
del più grande amore per gli uomini, 
per mezzo della quale si costruisce virilmente l'edificio della pace.

Tale opera esige oggi certamente che essi dilatino la loro mente 
e il loro cuore al di là dei confini della propria nazione, 
deponendo ogni egoismo nazionale
ed ogni ambizione di supremazia su altre nazioni, 
e nutrendo invece un profondo rispetto verso tutta l'umanità, 
avviata ormai così faticosamente verso una maggiore unità.

Per ciò che riguarda i problemi della pace e del disarmo, 
bisogna tener conto degli studi approfonditi, 
già coraggiosamente e instancabilmente condotti 
e dei consessi internazionali che trattarono questi argomenti 
e considerarli come i primi passi verso la soluzione di problemi così gravi; 

con maggiore insistenza ed energia 
dovranno quindi essere promossi in avvenire, 
al fine di ottenere risultati concreti. 

Stiano tuttavia bene attenti gli uomini 
a non affidarsi esclusivamente agli sforzi di alcuni, 
senza preoccuparsi minimamente dei loro propri sentimenti. 

I capi di Stato, infatti, i quali sono mallevadori del bene comune 
delle proprie nazioni e fautori insieme del bene della umanità intera, 
dipendono in massima parte dalle opinioni e dai sentimenti delle moltitudini. 

È inutile infatti che essi si adoperino con tenacia a costruire la pace, 
finché sentimenti di ostilità, di disprezzo e di diffidenza, 
odi razziali e ostinate ideologie dividono gli uomini, 
ponendoli gli uni contro gli altri. 

Di qui la estrema, urgente necessità di una rinnovata educazione degli animi 
e di un nuovo orientamento nell'opinione pubblica. 

Coloro che si dedicano a un'opera di educazione, specie della gioventù, 
e coloro che contribuiscono alla formazione della pubblica opinione,
 considerino loro dovere gravissimo inculcare negli animi di tutti 
sentimenti nuovi, ispiratori di pace. 

E ciascuno di noi deve adoperarsi per mutare il suo cuore, 
aprendo gli occhi sul mondo intero 
e su tutte quelle cose che gli uomini possono compiere 
insieme per condurre l'umanità verso un migliore destino.

Né ci inganni una falsa speranza. 

Se non verranno in futuro conclusi stabili e onesti trattati di pace universale, 
rinunciando ad ogni odio e inimicizia, 
L'umanità che, pur avendo compiuto mirabili conquiste 
nel campo scientifico, si trova già in grave pericolo, 
sarà forse condotta funestamente a quell'ora, 
in cui non potrà sperimentare altra pace che la pace terribile della morte.

La Chiesa di Cristo nel momento in cui, 
posta in mezzo alle angosce del tempo presente, pronuncia tali parole, 
non cessa tuttavia di nutrire la più ferma speranza. 

Agli uomini della nostra età essa intende presentare con insistenza, 
sia che l'accolgano favorevolmente, o la respingano come importuna, 
il messaggio degli apostoli: 

« Ecco ora il tempo favorevole » per trasformare i cuori, 
«ecco ora i giorni della salvezza».

Gaudium et Spes, Concilio Vaticano II, 82

http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/
documents/vat-ii_const_19651207_gaudium-et-spes_it.html

domenica 15 novembre 2015

oltre i limiti della ragione ...?


Mediante la giustizia originale 
la ragione dominava perfettamente le potenze inferiori dell'anima, 
ed essa stessa era sublimata dalla sua sottomissione a Dio. 

Ma la giustizia originale fu distrutta, 
come abbiamo detto, dal peccato di Adamo. 

E quindi tutte le facoltà dell'anima 
rimangono come destituite del proprio ordine, 
dal quale erano indirizzate naturalmente alla virtù: 
e codesta destituzione si dice che è un ferimento della natura. 

Ora, quattro sono le potenze dell'anima 
che possono essere sede di virtù, come sopra abbiamo visto: 
la ragione, in cui risiede la prudenza; 
la volontà, in cui si trova la giustizia; 
l'irascibile, sede della fortezza; 
il concupiscibile, sede della temperanza. 

Perciò dal momento che la ragione è destituita del suo ordine alla verità, 
si ha la ferita dell'ignoranza; 
con la perdita dell'ordine che la volontà sperimenta per il bene, 
si ha la ferita della malizia; 

privando l'irascibile del suo ordine alle cose ardue, 
si ha la ferita della fragilità; 
e togliendo alla concupiscenza il suo ordine al bene dilettevole
regolato dalla ragione, 
si ha la ferita della concupiscenza.

Quindi sono quattro le ferite inflitte 
a tutta la natura umana dal peccato di Adamo. 

Siccome però l'inclinazione al bene 
viene menomata in ciascuno anche dal peccato attuale, 
come sopra abbiamo dimostrato, 
queste quattro piaghe accompagnano pure gli altri peccati; 

col peccato, cioè, la ragione si offusca, 
specialmente in campo pratico; 
la volontà diviene restia al bene; 
cresce l'interna difficoltà a ben operare; 
e la concupiscenza si accende.

Niente impedisce che l'effetto di un peccato sia causa di un altro. 

Infatti dal momento che l'anima viene disordinata da un peccato, 
più facilmente è inclinata a peccare.

Malizia qui non sta a indicare il peccato, 
ma una certa predisposizione della volontà al male, 
secondo l'espressione della Genesi: 
"I sensi e i pensieri del cuore umano inclinano 
al male sin dall'adolescenza".

Come abbiamo già detto, 
la concupiscenza è naturale per l'uomo in quanto sottostà alla ragione. 
Ma quando passa i limiti della ragione è contro natura.

In senso lato si può chiamare fragilità qualsiasi passione, 
in quanto debilita le forze dell'anima e ostacola la ragione. 
Ma Beda qui prende la fragilità in senso stretto, 
come contrapposta alla fortezza, propria dell'irascibile.

Il testo di S. Agostino citato nella difficoltà include 
le tre piaghe che si riscontrano nelle potenze appetitive, 
e cioè la malizia, la fragilità e la concupiscenza: 
infatti da esse dipende che uno non tenda con facilità al bene. 
L'errore, poi, e il dolore sono piaghe conseguenti: 
poiché uno si addolora per il fatto che si sente debole 
di fronte alle proprie concupiscenze.


San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, I-II, q. 85, a. 3
http://www.genesibiblica.eu/docu/summa-85-peccato.html

domenica 8 novembre 2015

rivendicò ... con scandalo del re

S. Tommaso di Canterbury 
rivendicò i beni della Chiesa con scandalo del re.
[...]

Per i beni temporali bisogna distinguere. 

Essi infatti possono essere nostri, 
oppure sono a noi affidati per gli altri, 
cioè come i beni della Chiesa sono affidati ai prelati, 
e come i beni collettivi sono affidati ai vari ufficiali dello stato. 

Ora, la conservazione di codesti beni, come quella di un deposito, 
impegna strettamente coloro cui sono affidati. 
Perciò essi non si possono sacrificare per evitare scandali: 
come non vanno sacrificati gli altri beni che sono di necessità per la salvezza.

Invece i beni di cui siamo padroni, 
per motivi di scandalo in certi casi dobbiamo sacrificarli, 
cedendoli o non rivendicandoli, e in altri casi non dobbiamo cederli. 

Infatti, se lo scandalo nasce dall'ignoranza o dalla fragilità altrui, 
riducendosi esso allo scandalo dei pusilli, 
come sopra abbiamo visto, 
allora i beni temporali o vanno sacrificati del tutto, 
oppure si deve ovviare allo scandalo diversamente, 
cioè mediante un'ammonizione. 

Di qui l'insegnamento di S. Agostino: 

"Devi cedere in modo da non danneggiare, 
per quanto è possibile, né te stesso né l'altro. 
E nel negargli ciò che lui vuole devi indicargli le norme della giustizia: 
e allora gli darai di più, correggendone le ingiuste pretese".

Talora invece lo scandalo nasce dalla malizia, 
ed è uno scandalo farisaico. 
Ebbene, per coloro che suscitano scandali in tal modo 
non si devono sacrificare i beni temporali; 
perché nuocerebbe al bene comune, 
prestando ai malvagi occasioni di rapina; 
e nuocerebbe agli stessi profittatori, 
i quali ritenendosi i beni altrui si ostinerebbero nel peccato. 

Perciò S. Gregorio afferma: 
"Tra coloro che ci tolgono i beni temporali 
alcuni sono semplicemente da tollerarsi; 
altri invece sono da affrontarsi a norma di giustizia; 
non solo per la preoccupazione di difendere i nostri beni, 
ma anche perché i profittatori non rovinino se stessi".

Se di frequente si permettesse ai malvagi 
di mettere le mani sui beni altrui, 
ne verrebbe menomata la verità della vita e della giustizia. 
Perciò non per qualsiasi scandalo si devono sacrificare i beni temporali.

L'Apostolo non intendeva consigliare 
di astenersi del tutto dal cibo per evitare lo scandalo; 
perché nutrirsi è necessario per vivere. 
Ma per evitare lo scandalo va sacrificato un determinato cibo, 
come risulta dalle sue parole: 
"Non voglio più mangiare carne mai e poi mai, 
per non dar scandalo al mio fratello".

Secondo S. Agostino, quel comando del Signore 
va inteso nel senso di una predisposizione d'animo: 
Un uomo cioè dev'essere più pronto a subire un'ingiustizia, o una frode, 
che a ricorrere a un tribunale, se ciò è opportuno. 
Talora però questo non è opportuno, come abbiamo dimostrato. 
- Lo stesso si dica delle parole dell'Apostolo.

Lo scandalo che l'Apostolo voleva evitare 
dipendeva dall'ignoranza dei pagani, 
che non conoscevano quest'uso. 
Perciò per un certo tempo bisognava farne a meno, 
perché prima potessero capire che questa era una cosa doverosa. 
- Per lo stesso motivo la Chiesa si astiene dall'esigere le decime 
nei luoghi dove non c'è l'uso di pagarle.

San Tommaso D'Aquino, Somma teologica, II-II, q. 43, a. 8

sabato 31 ottobre 2015

... nulla di più grande

Maria è Madre di misericordia 
perché Gesù Cristo, suo Figlio, è mandato dal Padre 
come Rivelazione della misericordia di Dio (cf Gv3, 16-18). 

Egli è venuto non per condannare ma per perdonare, 
per usare misericordia (cf Mt 9,13). 
E la misericordia più grande sta nel suo essere in mezzo a noi 
e nella chiamata che ci è rivolta ad incontrare Lui e a confessarlo, 
insieme con Pietro, come «il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). 

Nessun peccato dell'uomo 
può cancellare la misericordia di Dio, può impedirle di sprigionare 
tutta la sua forza vittoriosa, se appena la invochiamo. 
Anzi, lo stesso peccato fa risplendere ancora di più 
l'amore del Padre che, per riscattare lo schiavo, 
ha sacrificato il suo Figlio: 
la sua misericordia per noi è redenzione. 

Questa misericordia giunge a pienezza con il dono dello Spirito, 
che genera ed esige la vita nuova. 
Per quanto numerosi e grandi siano gli ostacoli 
opposti dalla fragilità e dal peccato dell'uomo, 
lo Spirito, che rinnova la faccia della terra (cf Sal 1031,30), 
rende possibile il miracolo del compimento perfetto del bene. 

Questo rinnovamento, che dà la capacità di fare ciò che 
è buono, nobile, bello, gradito a Dio e conforme alla sua volontà, 
è in un certo senso la fioritura del dono della misericordia, 
che libera dalla schiavitù del male e dà la forza di non peccare più. 

Attraverso il dono della vita nuova 
Gesù ci rende partecipi del suo amore 
e ci conduce al Padre nello Spirito.

È questa la consolante certezza della fede cristiana, 
alla quale essa deve la sua profonda umanità 
e la sua straordinaria semplicità. 

Talvolta, nelle discussioni sui nuovi complessi problemi morali, 
può sembrare che la morale cristiana sia in se stessa troppo difficile, 
ardua da comprendere e quasi impossibile da praticare. 

Ciò è falso, perché essa consiste, in termini di semplicità evangelica, 
nel seguire Gesù Cristo, nell'abbandonarsi a Lui, 
nel lasciarsi trasformare dalla sua grazia 
e rinnovare dalla sua misericordia, 
che ci raggiungono nella vita di comunione della sua Chiesa. 

«Chi vuole vivere — ci ricorda sant'Agostino —, 
ha dove vivere, ha donde vivere. 
Si avvicini, creda, si lasci incorporare per essere vivificato. 
Non rifugga dalla compagine delle membra».

Può capire dunque l'essenza vitale della morale cristiana, 
con la luce dello Spirito, ogni uomo, anche il meno dotto, 
anzi soprattutto chi sa conservare un «cuore semplice» (Sal 852,11). 

D'altra parte, questa semplicità evangelica 
non esime dall'affrontare la complessità del reale,
ma può introdurre alla sua più vera comprensione, 
perché la sequela di Cristo metterà progressivamente in luce 
i caratteri dell'autentica moralità cristiana e darà, 
al tempo stesso, l'energia di vita per la sua realizzazione. 

È compito del Magistero della Chiesa vegliare 
perché il dinamismo della sequela di Cristo 
si sviluppi in modo organico, senza che ne vengano falsate 
o occultate le esigenze morali, con tutte le loro conseguenze. 
Chi ama Cristo osserva i suoi comandamenti (cf Gv 14,15).

Maria è Madre di misericordia anche perché a lei 
Gesù affida la sua Chiesa e l'intera umanità. 

Ai piedi della Croce, quando accetta Giovanni come figlio, 
quando chiede, insieme con Cristo, 
il perdono al Padre per coloro che non sanno quello che fanno (cfLc 23,34), 
Maria in perfetta docilità allo Spirito 
sperimenta la ricchezza e l'universalità dell'amore di Dio, 
che le dilata il cuore e la fa capace di abbracciare l'intero genere umano. 
È resa, in tal modo, Madre di tutti noi, e di ciascuno di noi, 
Madre che ci ottiene la misericordia divina.

Maria è segno luminoso ed esempio affascinante di vita morale: 
«la vita di lei sola è insegnamento per tutti», 
scrive sant'Ambrogio, 
che rivolgendosi in particolare alle vergini 
ma in un orizzonte aperto a tutti così afferma: 

«Il primo ardente desiderio di imparare lo dà la nobiltà del maestro. 
E chi è più nobile della Madre di Dio? o più splendida 
di Colei che fu eletta dallo stesso Splendore?».
Maria vive e realizza la propria libertà 
donando se stessa a Dio ed accogliendo in sé il dono di Dio. 

Custodisce nel suo grembo verginale il Figlio di Dio 
fatto uomo fino al tempo della nascita, 
lo alleva, lo fa crescere e lo accompagna 
in quel gesto supremo di libertà, 
che è il sacrificio totale della propria vita. 

Con il dono di se stessa, 
Maria entra pienamente nel disegno di Dio, che si dona al mondo. 
Accogliendo e meditando nel suo cuore 
avvenimenti che non sempre comprende (cf Lc 2,19), 
diventa il modello di tutti coloro 
che ascoltano la parola di Dio e la osservano (cf Lc 11, 28) 
e merita il titolo di «Sede della Sapienza». 

Questa Sapienza è Gesù Cristo stesso, 
il Verbo eterno di Dio, che rivela e compie 
perfettamente la volontà del Padre (cf Eb 10,5-10). 

Maria invita ogni uomo ad accogliere questa Sapienza. 
Anche a noi rivolge l'ordine dato ai servi, 
a Cana in Galilea durante il banchetto di nozze: 
«Fate quello che egli vi dirà» (Gv 2,5).

Maria condivide la nostra condizione umana, 
ma in una totale trasparenza alla grazia di Dio. 
Non avendo conosciuto il peccato, 
ella è in grado di compatire ogni debolezza. 

Comprende l'uomo peccatore e lo ama con amore di Madre. 
Proprio per questo sta dalla parte della verità 
e condivide il peso della Chiesa nel richiamare a tutti 
e sempre le esigenze morali. 
Per lo stesso motivo non accetta 
che l'uomo peccatore venga ingannato 
da chi pretenderebbe di amarlo giustificandone il peccato, 
perché sa che in tal modo sarebbe reso vano 
il sacrificio di Cristo, suo Figlio. 

Nessuna assoluzione, offerta da compiacenti dottrine 
anche filosofiche o teologiche, 
può rendere l'uomo veramente felice: 
solo la Croce e la gloria di Cristo risorto 
possono donare pace alla sua coscienza e salvezza alla sua vita.

O Maria, 
Madre di misericordia, 
veglia su tutti 
perché non venga resa vana la croce di Cristo, 
perché l'uomo non smarrisca la via del bene,
non perda la coscienza del peccato,
cresca nella speranza in Dio 
«ricco di misericordia» (Ef 2,4), 
compia liberamente le opere buone 
da Lui predisposte (cf Ef 2,10) 
e sia così con tutta la vita 
«a lode della sua gloria» (Ef 1,12).

San Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor (118-119-120)

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/
hf_jp-ii_enc_06081993_veritatis-splendor.html

mercoledì 21 ottobre 2015

exemplar, fondamento di tutte le cose?

Dio è causa esemplare di tutte le cose. 

E si dimostra osservando che l'esemplare 
è necessario alla produzione di una cosa, 
perché l'effetto raggiunga una forma determinata: 

infatti l'artefice produce una data forma nella materia 
in base all'esemplare al quale s'ispira, 
sia esso un modello a cui guarda dall'esterno, 
o un esemplare concepito internamente dall'intelligenza. 

Ora, è chiaro che le cose prodotte dalla natura 
ricevono delle forme determinate. 
E questa determinazione di forme è necessario riportarla, 
come a prima causa, alla sapienza divina, 
la quale ha fissato l'ordine dell'universo
che consiste nella varietà delle cose. 

Perciò è necessario affermare che nella divina sapienza 
si trovano le essenze di tutte le cose: 
le quali sopra abbiamo chiamato idee
cioè forme esemplari esistenti nella mente di Dio

E sebbene esse siano molteplici relativamente alle cose, 
tuttavia non sono in realtà distinte dall'essenza divina, 
in quanto la somiglianza di questa 
può essere da più cose diversamente partecipata. 

Così dunque Dio stesso è la causa esemplare di tutte le cose. 

Anche tra gli esseri creati però alcuni possono dirsi 
esemplari o modelli di altri, 
in quanto certe cose somigliano a certe altre, 
o secondo una medesima specie, ovvero per un'analogia di imitazione.

San Tommaso D'Aquino, Somma teologica I, q. 44, a. 3

sabato 3 ottobre 2015

come potrebbe essere geloso ...?

... solo nello Spirito Santo è possibile ritrovare 
questa pienezza della vocazione matrimoniale. 

L’atto costitutivo del matrimonio è il donarsi reciproco, 
il fare dono del proprio corpo 
(cioè, nel linguaggio biblico, di tutto se stessi) al coniuge. 
Essendo il sacramento del dono, il matrimonio è, per sua natura, 
un sacramento aperto all’azione dello Spirito Santo 
che è per eccellenza il Dono, 
o meglio il Donarsi reciproco del Padre e del Figlio. 
È la presenza santificante dello Spirito che fa, 
del matrimonio, un sacramento non solo celebrato, ma vissuto.

Fare spazio a Cristo nella vita di coppia 
è il segreto per accedere a questi splendori del matrimonio cristiano. 
È da lui infatti che viene lo Spirito Santo 
che fa nuove tutte le cose. 
Un libro del vescovo Fulton Sheen, 
popolare negli anni Cinquanta, 
inculcava tutto ciò nel titolo stesso che recava: 
“Tre per sposarsi”.

Non bisogna aver paura di proporre 
ad alcune coppie di futuri sposi cristiani, 
particolarmente preparate, un traguardo altissimo: 
quello di pregare un po’ insieme la sera delle nozze, 
come Tobia e Sara, e poi dare a Dio Padre 
la gioia di vedere di nuovo realizzato, 
grazie a Cristo, il suo progetto iniziale, 
quando Adamo ed Eva stavano nudi uno di fronte all’altra 
e tutti e due davanti a Dio, e non ne provavano vergogna.

... da La scarpetta di raso di Claudel. 
... un dialogo tra la protagonista femminile del dramma, 
combattuta tra la paura e il desiderio di arrendersi all’amore,
e il suo angelo custode:

-È dunque permesso questo amore delle creature l’una per l’altra? Davvero, Dio non è geloso?
- Come potrebbe essere geloso di ciò che ha fatto lui stesso?
-Ma l’uomo nelle braccia della donna dimentica Dio…
-È forse dimenticarlo essere con lui ed essere associati al mistero della sua creazione?

http://www.cantalamessa.org/?p=961

la stessa identità ... fondamentale


La persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio, 
non può essere definita in modo adeguato 
con un riduttivo riferimento solo al suo orientamento sessuale.

Qualsiasi persona che vive sulla faccia della terra 
ha problemi e difficoltà personali, ma anche opportunità di crescita, 
risorse, talenti e doni propri.

La Chiesa offre quel contesto 
del quale oggi si sente una estrema esigenza 
per la cura della persona umana,

proprio quando rifiuta di considerare la persona 
puramente come un « eterosessuale » o un « omosessuale » 
e sottolinea che ognuno ha la stessa identità fondamentale:

essere creatura e, per grazia, figlio di Dio, erede della vita eterna.

http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/
rc_con_cfaith_doc_19861001_homosexual-persons_it.html

domenica 27 settembre 2015

la quarta via: la più debole

Che Dio esista si può provare per cinque vie. 

La prima e la più evidente è quella che si desume dal moto. 

È certo infatti e consta dai sensi,
che in questo mondo alcune cose si muovono. 
Ora, tutto ciò che si muove è mosso da un altro. 
Infatti, niente si trasmuta che non sia potenziale 
rispetto al termine del movimento; 
mentre chi muove, muove in quanto è in atto. 
Perché muovere non altro significa 
che trarre qualche cosa dalla potenza all'atto; 
e niente può essere ridotto dalla potenza all'atto
se non mediante un essere che è già in atto. 
P. es., il fuoco che è caldo attualmente rende caldo in atto il legno, 
che era caldo soltanto potenzialmente, e così lo muove e lo altera. 
Ma non è possibile che una stessa cosa 
sia simultaneamente e sotto lo stesso aspetto in atto ed in potenza: 
lo può essere soltanto sotto diversi rapporti: 
così ciò che è caldo in atto non può essere insieme caldo in potenza, 
ma è insieme freddo in potenza. 
È dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto 
una cosa sia al tempo stesso movente e mossa, cioè che muova se stessa. 
È dunque necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da un altro. 
Se dunque l'essere che muove è anch'esso soggetto a movimento, 
bisogna che sia mosso da un altro, e questo da un terzo e così via. 
Ora, non si può in tal modo procedere all'infinito, 
perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, 
e di conseguenza nessun altro motore, 
perché i motori intermedi non muovono 
se non in quanto sono mossi dal primo motore, 
come il bastone non muove se non in quanto è mosso dalla mano. 
Dunque è necessario arrivare ad un primo motore 
che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio.


La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente. 

Troviamo nel mondo sensibile che vi è un ordine tra le cause efficienti, 
ma non si trova, ed è impossibile, 
che una cosa sia causa efficiente di se medesima; 
ché altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile. 
Ora, un processo all'infinito nelle cause efficienti è assurdo. 
Perché in tutte le cause efficienti concatenate la prima è causa dell'intermedia, 
e l'intermedia è causa dell'ultima, siano molte le intermedie o una sola; 
ora, eliminata la causa è tolto anche l'effetto: 
se dunque nell'ordine delle cause efficienti non vi fosse una prima causa, 
non vi sarebbe neppure l'ultima, né l'intermedia. 
Ma procedere all'infinito nelle cause efficienti 
equivale ad eliminare la prima causa efficiente; 
e così non avremo neppure l'effetto ultimo, né le cause intermedie: 
ciò che evidentemente è falso. 
Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, 
che tutti chiamano Dio.


La terza via è presa dal possibile 
(o contingente) e dal necessario, ed è questa. 

Tra le cose noi ne troviamo di quelle che possono essere e non essere; 
infatti alcune cose nascono e finiscono, 
il che vuol dire che possono essere e non essere. 
Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, 
perché ciò che può non essere, un tempo non esisteva. 
Se dunque tutte le cose (esistenti in natura sono tali che) 
possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. 
Ma se questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, 
perché ciò che non esiste, 
non comincia ad esistere se non per qualche cosa che è. 
Dunque, se non c'era ente alcuno, 
è impossibile che qualche cosa cominciasse ad esistere, 
e così anche ora non ci sarebbe niente, 
il che è evidentemente falso. 
Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, 
ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario. 
Ora, tutto ciò che è necessario, 
o ha la causa della sua necessità in altro essere oppure no. 
D'altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la causa della loro necessità, 
non si può procedere all'infinito, 
come neppure nelle cause efficienti secondo che si è dimostrato. 
Dunque bisogna concludere all'esistenza di un essere 
che sia di per sé necessario, e non tragga da altri la propria necessità, 
ma sia causa di necessità agli altri. 
E questo tutti dicono Dio.


La quarta via si prende dai gradi che si riscontrano nelle cose. 

È un fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile 
e altre simili perfezioni in un grado maggiore o minore. 
Ma il grado maggiore o minore si attribuisce alle diverse cose 
secondo che esse si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto; 
così più caldo è ciò che maggiormente si accosta al sommamente caldo. 
Vi è dunque un qualche cosa che è vero al sommo, 
ottimo e nobilissimo, e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente; 
perché, come dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto vero, 
è tale anche in quanto ente. 
Ora, ciò che è massimo in un dato genere, 
è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, 
come il fuoco, caldo al massimo, è cagione di ogni calore, 
come dice il medesimo Aristotele. 
Dunque vi è qualche cosa che per tutti gli enti 
è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. 
E questo chiamiamo Dio.


La quinta via si desume dal governo delle cose.

Noi vediamo che alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, 
cioè i corpi fisici, operano per un fine, 
come appare dal fatto che esse operano 
sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione: 
donde appare che non a caso, ma per una predisposizione raggiungono il loro fine. 
Ora, ciò che è privo d'intelligenza non tende al fine 
se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, 
come la freccia dall'arciere. 
Vi è dunque un qualche essere intelligente, 
dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: 
e quest'essere chiamiamo Dio.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, I, q.2, a.3

http://www.cattedrarosmini.org/site/view/view.php?cmd=view&id=47&menu1=m3&menu2=m9&menu3=m74&videoid=127

domenica 20 settembre 2015

uno dei nemici: lo spirito d'impurità

Ma il diavolo, che odia il bene ed è invidioso, 
non sopportò di vedere in un giovane tale proposito di vita 
e incominciò a mettere in opera anche contro di lui i suoi intrighi abituali. 

Per prima cosa cercò di distoglierlo dall’ascesi 
ispirandogli il ricordo delle ricchezze, 
la sollecitudine per la sorella, l’affetto per i parenti, 
l’amore per il denaro, il desiderio di gloria, 
il piacere di un cibo svariato e ogni altro godimento della vita. 

Infine gli suggeriva il pensiero di come sia aspra la virtù 
e quali fatiche richieda e gli metteva dinanzi 
la debolezza del corpo e la lunghezza del tempo. 
Insomma risvegliò nella sua mente una grande tempesta di pensieri, 
perché voleva distoglierlo dalla sua giusta decisione.

Ma come il Nemico si vide debole di fronte al proposito di Antonio 
e vide che era piuttosto lui a essere vinto dalla fermezza di Antonio, 
respinto dalla sua grande fede e abbattuto dalle sue continue preghiere, 
allora confidò in quelle armi che si trovano presso l’ombelico e se ne gloriò 
– sono queste le prime insidie contro i giovani–. 

Assale così il giovane turbandolo di notte, 
molestandolo di giorno al punto che quelli che lo vedevano 
si accorgevano della lotta che si combatteva tra i due. 

L’uno, infatti, suggeriva pensieri impuri, l’altro li scacciava con le preghiere; 
l’uno lo eccitava, l’altro, come arrossendo di vergogna, 
dava forza al suo corpo mediante la fede e i digiuni. 

Il diavolo, sciagurato, di notte assumeva anche l’aspetto di una donna 
e ne imitava il comportamento in tutte le maniere, 
con il solo intento di sedurre Antonio. 

Ma questi, pensando a Cristo e meditando sulla nobiltà 
che l’uomo possiede grazie a lui e sulla qualità spirituale dell’anima, 
spegneva il fuoco della sua seduzione. 

Di nuovo il Nemico gli suggeriva la dolcezza del piacere, 
ma Antonio, come adirato e addolorato, 
pensava alla minaccia del fuoco e al tormento del verme, 
opponeva questi pensieri alle tentazioni del Nemico 
e passava attraverso di esse senza patirne danno.

Tutto questo accadeva a vergogna del Nemico. 
Colui che pensava di farsi simile a Dio, infatti, 
veniva deriso da un giovane ragazzo; 
colui che si gloriava contro la carne e il sangue, 
era abbattuto da un uomo rivestito di carne perché il Signore, 
che si rivestì di carne per noi e che diede al corpo la vittoria sul diavolo, aiutava Antonio. 
Perciò ciascuno di quelli che così combattono può dire: 
Non io, ma la grazia di Dio che è con me.

Infine il drago, poiché non era riuscito a far cader Antonio 
neppure in questo modo e vedeva che invece era lui a essere respinto dal suo cuore, 
digrignando i denti, come sta scritto e come fuori di sé, 
gli apparve quale egli è spiritualmente, nelle sembianze di un ragazzo nero. 

Come se gli fosse sottomesso, non lo assaliva più con i pensieri 
– l’ingannatore, infatti, era stato scacciato – 
ma usando la voce umana gli diceva: 
« Molti ho tratto in inganno, la maggior parte li ho abbattuti, 
ma ora che ho affrontato te e le tue fatiche come ho fatto con molti altri, 
sono ridotto all’impotenza ». 

Poi, quando Antonio gli chiese: « Chi sei tu che così mi parli? », 
subito gemeva dicendo: « Io sono amico dell’impurità; 
mi sono incaricato di insidiare ed eccitare i giovani per spingerli ad essa. 

Mi chiamano spirito d’impurità. 

Quanti, che volevano vivere castamente, sono riuscito a ingannare! 
Quanti, che vivevano in castità, ho dissuaso con le mie istigazioni! 
Io sono colui a causa del quale il profeta rimprovera quelli che sono caduti dicendo: 
Vi siete lasciati sviare da uno spirito di impurità; 
a causa mia furono gettati a terra. 
Io solo colui che spesso ti ha molestato 
e che altrettante volte si è visto respinto da te ».

Antonio allora rese grazie al Signore, 
si fece coraggio contro il Nemico e gli disse: 
« Grande disprezzo ti meriti; sei nero nell’animo e debole come un ragazzo. 
Non ho più motivo di preoccuparmi per te. 
Il Signore è il mio aiuto e io disprezzerò i miei nemici ». 
All’udir questo quel ragazzo nero se ne fuggì 
spaventato da quelle parole 
temendo anche solo di avvicinarsi a tale uomo.

http://www.monasterovirtuale.it/i-dottori-della-chiesa/s.-atanasio-vita-di-antonio.html

sabato 19 settembre 2015

mezzo incitrullito ... dotto e intelligente

Ma Giuseppe, che palesava essere un mezzo incitrullito, 
fu rimandato a casa. 
I coetanei, quelli più aspri e pungenti, 
non mancarono di affibiargli il soprannome di 
“Pippi boccaperta” 
per averlo sorpreso più volte con la bocca semichiusa 
e le braccia aperte in forma di croce 
dinanzi alle immagini sacre della chiesa di San Francesco. 

In realtà, questo era il preludio delle sue mistiche ascensioni.

Più tardi si rivolse ai Riformati di Casole, 
ma nemmeno questi vollero saperne della sua vocazione. 
Non rimanevano che i Cappuccini dove fu accettato in qualità di fratello laico. 
Stette prima a Copertino e poi a Martina Franca, 
dove fu mandato per l’anno di noviziato. 
Qui vestì il saio e lo chiamarono fra Stefano. 
Era il 1620. 
Un giorno, però, il maestro di noviziato lo chiamò 
per dirgli di tornare al mondo perché non era vocato per quell’Ordine 
in quanto cagionevole di salute, sempre distratto 
al punto da apparire un pò demente. 
Amareggiato, deluso, scalzo e seminudo 
partì da Martina Franca per raggiungere la sua Copertino.

[...]

La sua povertà, ma soprattutto la fama 
dell’indiscutibile carica umanitaria, 
la sua eccezionale fede religiosa e i suoi prodigi 
superarono i confini cittadini e quelli provinciali. 
La sua prima levitazione è documentata il 4 ottobre 1630 
al rientro in chiesa della processione di San Francesco. 
Giuseppe, infatti, si sollevò da terra fino all'altezza del pulpito, 
immobile sotto gli occhi di una folla in delirio. 
Da allora la sua vita cambiò. Le estasi divennero sempre più frequenti.

[...]

A Giuseppe obbedivano non solo gli uomini, ma anche gli animali. 
Cominciò a profondere miracoli 
i quali si pubblicano per la prima volta da Domenico Andrea Rossi nel 1767. 
Il Ministro Generale dei Minori Conventuali, infatti, 
in quell'anno, per i torchi di Giovanni Zampei, dette alle stampe il 
“Compendio della vita, virtù e miracoli di S. Giuseppe di Copertino”. 
Ma la diffusione dei suoi miracoli non tardò a richiamare 
l’attenzione del Sant'Offizio di Napoli. 
Le accuse partirono da Giovinazzo dove il Nostro, 
al termine di una levitazione fu accusato di truffa.
Sicchè il 26 maggio 1636 partì l’accusa formale. 
Secondo la procedura il fascicolo fu inviato a Roma 
dove la commissione cardinalizia del tribunale inquisitoriale 
discusse il caso.

Nel 1638 a Napoli iniziò il suo calvario. 
In attesa di nuove prove di santità fu deciso di tenerlo segregato 
e fu mandato esule e triste ad Assisi. 
Era il 1643 e i suoi miracoli si susseguivano anche in Assisi 
dove gli fu consegnata la cittadinanza onoraria. 
Era il 4 agosto del ’43. 
Ad Assisi padre Giuseppe visse quattordici anni 
e rivelò anche in quella città le sue doti profetiche 
tra cui la morte di Urbano VIII anticipata tre giorni prima. 
Ultimo carisma fu quello della scienza. 
Semplice di lingua, zoppicante in calligrafia, trepido nella lettura, 
ma quando parlava di Dio 
“aveva tanta fecondia nei discorsi teologici 
che pareva dotto e intelligente”.

http://www.sangiuseppedacopertino.it/home/la-storia/san-giuseppe-da-copertino/

mercoledì 9 settembre 2015

"la seconda tavola dopo il naufragio"

Gli innocenti sono migliori dei penitenti, 
perché, al dire di S. Girolamo, 
"la penitenza è la seconda tavola dopo il naufragio". 
Dio invece ama più i penitenti degli innocenti; 
perché di essi più si rallegra. Infatti si legge nel Vangelo: 
"Vi dico che vi sarà più festa in cielo per un peccatore pentito, 
che per novantanove giusti, che non abbisognano di penitenza". 
Dunque non sempre Dio ama le cose migliori.

[...]

È necessario affermare, stando a quel che si è già detto, 
che Dio ama di più le cose migliori. 
Abbiamo spiegato infatti che per Dio 
amare di più un essere non vuol dire altro che 
dare a quest'essere un bene più grande, 
essendo la volontà di Dio la causa della bontà nelle cose. 
E quindi, proprio per questo vi sono delle cose migliori, 
perché Dio vuole ad esse un bene maggiore. 
Di qui la conseguenza che le cose migliori Dio le ama di più.

[...]

La natura umana assunta dal Verbo di Dio 
nella Persona del Cristo è amata da Dio più di tutti gli angeli: 
ed è più nobile specialmente a causa dell'unione (ipostatica). 
Ma, parlando della natura umana in generale, 
e paragonandola alla natura angelica 
quanto all'ordine della grazia e della gloria, vi è parità, 
perché, come è detto nell'Apocalisse, 
"una stessa misura è per l'uomo e per l'angelo"; 
in maniera, però, che, sotto questo aspetto 
alcuni angeli risultano superiori a certi uomini, 
e alcuni uomini superiori a certi angeli. 
Se si parla però della loro condizione naturale, 
l'angelo è superiore all'uomo. 
E perciò se Dio ha assunto la natura umana, 
non è perché assolutamente parlando amasse di più l'uomo, 
ma perché questi era più bisognoso. 
Ha fatto come un buon padre di famiglia, 
il quale dà ad un servo malato 
un cibo più costoso che ad un figlio sano.

[...]

I penitenti e gli innocenti si possono trovare 
(confrontati tra di loro) reciprocamente in vantaggio e in svantaggio. 
Penitenti o innocenti, 
sono migliori e maggiormente amati 
quelli che hanno la grazia in maggiore abbondanza. 
Tuttavia, a parità di condizioni, l'innocenza è migliore 
e da Dio è maggiormente amata. 
Ma si dice che Dio fa più festa per un penitente che per un innocente, 
perché, di solito, i peccatori pentiti risorgono 
più cauti, più umili e più fervorosi. 

Per questo S. Gregorio può affermare che 
"il capitano preferisce nel combattimento un soldato che, 
dopo esser fuggito, è ritornato e incalza fortemente il nemico, 
ad uno che mai è fuggito, ma neppure ha compiuto atti di eroismo". 
- Si può anche addurre un'altra ragione, 
e cioè che un uguale dono di grazia è maggiore 
in rapporto a un penitente il quale meritò una punizione, 
che in rapporto a un innocente il quale non l'ha meritata. 
Così, cento marchi costituiscono un regalo più grande 
se si danno ad un povero, che se si danno ad un re.

San Tommaso d'Aquino, Summa teologica I, q. 20, a. 4

martedì 1 settembre 2015

la possibilità di non morire

Se la caratteristica dell’immortalità 
non appartiene per sé alla natura umana, 
come è possibile che l’uomo sia immortale? 
O che è lo stesso, è possibile che l’immortale diventi mortale?

A queste domande Agostino così risponde: 
la possibilità riposa sul fatto che ci sia un essere che, 
nello stesso tempo, sia Creatore e creatura, 
Immortale per sé e mortale per accidens, 
cioè che abbia in sé le proprietà specifiche dei due esseri, 
quello divino e quello umano . 

Al pensiero che un Dio diventi uomo e un uomo diventi Dio, 
l’uomo smarrisce il suo orientamento 
e si affida unicamente alla logica del mistero.

Di fronte a questo quesito, 
i Padri sono dell’avviso che il mistero 
per realizzarsi deve seguire la logica di Dio, 
e cioè che Dio diventi prima uomo, 
e poi l’uomo può diventare Dio, perché non è possibile che l’uomo, 
per sé è mortale, diventi da solo Dio. 
E’ necessario prima che Dio, per sé immortale, diventi uomo, 
così che l’uomo possa essere elevato alla dignità divina 
e quindi anche alla caratteristica dell’immortalità.

Così infatti scrive Ireneo: 
«Per il fatto che il Verbo di Dio si è fatto uomo, 
egli è contemporaneamente Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, 
affinché l’uomo, unito al Verbo di Dio 
e ricevendo l’adozione, diventa Figlio di Dio» .

[...]

In altri termini, se Dio ha deciso nella sua liberissima volontà 
di elevare l’uomo alla gloria e quindi all’immortalità, 
doveva anche fornire il mezzo adatto per conseguirla, 
cioè metterlo nelle condizioni oggettive 
di poter raggiungere con la grazia il suo fine ultimo. 

Unico mezzo possibile è quello dell’unione ipostatica, 
per la quale Dio assume l’uomo 
e l’uomo può diventare Dio nella Persona che lo personalizza. 
Solo attraverso l’unione ipostatica tra Dio e uomo 
c’è scambio di caratteristiche essenziali, come quella dell’immortalità. 
L’immortalità per sé del Verbo 
viene comunicata anche alla natura umana, 
personalizzata dalla Persona del Verbo.

[...]
La natura umana di Cristo, perciò, non diviene per sé immortale, 
ma, conservando la sua mortalità, acquista l’esigenza all’immortalità.
Tale interpretazione poggia sulle testimonianze dei Padri.

[...]

l’uomo è stato creato mortale o immortale?
A questo delicato quesito, i Padri sono unanimi 
nel ritenere che Adamo, e in lui ogni uomo, 
non fu creato né mortale né immortale, 
ma fu creato indifferente, 
cioè nella natura per sé mortale Dio ha posto un seme per sé immortale, 
e tutto dipendente dalla scelta di Adamo o dell’uomo. 

Il “seme d’immortalità” è dato dall’”immagine” a Cristo. 
E poiché non si può ammettere in Dio un prima e poi, 
se non soltanto a livello logico, si deve concludere dicendo 
che Adamo si è costituito nella sua realtà ontologica, 
mortale o immortale, 
in forza della sua scelta di fede radicale fatta a Cristo. 

Nell’uomo, l’immagine di Cristo può dirsi “naturale”, 
in quanto è stata inserita nella natura e con la natura, 
all’istante della creazione, e non dalla natura; 
e anche “soprannaturale”, in quanto insieme all’anima 
costituisce la stessa naturale natura umana. 

Ciò significa che la prima grazia santificante 
non trasformava la natura umana da mortale a immortale, 
ma le concedeva soltanto la possibilità di non morire.

Il Verbo, assumendo la natura umana, 
si è fatto in tutto simile all’uomo eccetto il peccato, 
cioè ha assunto un corpo “mortale” per legge di natura, 
ma “immortale” per l’immagine di Cristo. 

Cristo, pertanto, aveva la possibilità di non morire, 
eppure ha voluto subire l’umiliazione della morte, 
per sconfiggere la stessa morte con e nella sua morte libera e volontaria. 
Onde Paolo può scrivere: 
«La morte è stata ingoiata per la vittoria» .

In breve, la realtà dell’immortalità alla luce di Cristo 
si rivela un vero e proprio mistero. 
Solo per Cristo le creature partecipano dell’immortalità. 
E poiché l’immortalità è prerogativa esclusiva della divinità, 
le creature vi partecipano soltanto in forza dell’unione ipostatica. 
Cristo partecipa all’uomo l’immagine sua di Dio, 
da cui scaturisce l’immortalità e la beatitudine. 
Pur ricevendo l’immortalità, 
non tutte le creature ricevono la beatitudine finale.

http://www.centrodunsscoto.it/Il_Cristocentrismo_di_Giovanni_Duns_Scoto.htm

sabato 22 agosto 2015

vita e morte nel mistero ...

In sintonia con il mistero globale di Cristo, 
Duns Scoto instaura una forma di perfetta analogia: 
come Cristo è morto ed è risorto, 
così Maria è morta risuscitata e assunta in cielo. 

Il fondamento della sua posizione 
è dato dal commento al passo del Genesi (3, 19): 
«sei polvere e in polvere ritornerai». 
Il valore dell’espressione è così generale 
che non ammette eccezione, neppure per Cristo e Maria. 

Per comprendere il pensiero del Dottor Sottile 
bisogna tenere presente la distinzione 
tra valore di legge naturale e valore di legge morale: 
la morte appartiene alla legge naturale, 
che non ammette eccezioni di sorta; 
il peccato originale, alla legge morale, che sopporta l’eccezione, 
come di fatto è avvenuto nella storia della salvezza. 

In questo modo si comprende anche la differenza 
dell’universalità del peccato con l’universalità della morte. 
Di per sé, la morte è una conseguenza del peccato originale, 
secondo Paolo (Rm 5, 12), cioè per demerito; in Cristo e Maria, invece, 
la morte risponde alla legge naturale e non alla legge morale, 
dal momento che essi erano esenti dal peccato d’origine e attuale, 
e quindi per privazione della gloria di per sé nel corpo.

Questo pensiero di Duns Scoto è da completarlo con quanto scrive: 
«E’ probabile che, alla fine dei tempi, gli ultimi uomini subiranno la morte 
come quella di Cristo e di sua Madre, e poi subito risorgeranno». 

La morte di Cristo e di Maria non viene mai vista 
come conseguenza del peccato, ma sempre come legge naturale, 
cui è soggetta metafisicamente la materialità del corpo. 

Si può concludere questo breve riferimento all’assunzione di Maria 
dicendo che se il Redentore ha preservato Maria dalla colpa originale, 
che è la pena maggiore del castigo divino, non l’ha liberata dalle pene minori, 
come sete, fame, dolore, passione e morte; 
e questo perché Maria potesse maggiormente meritare per sé e gli altri.

Anche in questo mistero Duns Scoto va contro corrente, 
difatti [secondo] gli autori della scolastica e tanti teologi, 
basandosi sempre sul testo di Paolo (Rm 5, 12): 
«la morte è entrata nel mondo per il peccato»; 
di conseguenza prima del peccato originale c’era l’immortalità. 

Il Maestro francescano, con la distinzione 
tra morte con valore naturale e morte come pena del peccato, 
è del parere che sia Cristo che Maria dovevano morire 
per legge naturale della materialità del proprio corpo. 

Difatti scrive, commentando il suddetto testo paolino (Rom 5, 12), 
che la morte è entrata sì nel mondo per il peccato, 
ma è stata preceduta dalla «potenza di morire». 

E nell’ipotesi assurda che Adamo avesse conservato lo stato di innocenza, 
la morte non sarebbe entrata nel mondo, 
ma con questo non sarebbe ipso facto immortale, 
perché la morte non appartiene allo stato di grazia, 
ma allo stato di natura, al massimo la morte sarebbe stata diversa, 
cioè non come punizione, ma come semplice passaggio alla vita eterna 
senza l’attuale senso punitivo. 

La morte perciò secondo Duns Scoto più che al peccato, 
anche se con esso è punizione, appartiene alla legge di natura del corpo 
che intrinsecamente e metafisicamente è mortale. 
Allora anche Maria è passata attraverso il dolce sonno della morte 
alla beata assunzione in cielo, come suo Figlio, 
anche se con modalità differenti, proprio in forza dei meriti 
de condigno che hanno acquistato per gli altri.

http://www.centrodunsscoto.it/articoli/Articoli_html/assunzione
%20al%20cielo%20della%20vergine%20maria.htm