sabato 17 dicembre 2016

Final Happiness of Man


IF then the final happiness of man does not consist in those exterior advantages 

which are called goods of fortune, nor in goods of the body, 

nor in goods of the soul in its sentient part, 

nor in the intellectual part in respect of the moral virtues, 

nor in the virtues of the practical intellect, called art and prudence, 

it remains that the final happiness of man consists 

in the contemplation of truth. 


This act alone in man is proper to him, 

and is in no way shared by any other being in this world. 

This is sought for its own sake, and is directed to no other end beyond itself. 



By this act man is united in likeness with pure spirits, 

and even comes to know them in a certain way.

For this act also man is more self-sufficient, 

having less need of external things. [570] 


Likewise to this act all other human activities 

seem to be directed as to their end. 


For to the perfection of contemplation there is requisite health of body; 

[571] and all artificial necessaries of life are means to health. 

Another requisite is rest from the disturbing forces of passion

that is attained by means of the moral virtues and prudence. 


Likewise rest from exterior troubles, 

which is the whole aim of civil life and government. 



Thus, if we look at things rightly, 

we may see that all human occupations seem to be ministerial to the service 

of the contemplators of truth. [572]


Now it is impossible for human happiness to consist 

in that contemplation which is by intuition of first principles, -

- a very imperfect study of things, as being the most general,

and not amounting to more than a potential knowledge: 

it is in fact not the end but the beginning of human study: 

it is supplied to us by nature, and not by any close investigation of truth. 


Nor can happiness consist in the sciences, 

the object-matter of which is the meanest things, 

whereas happiness should be an activity of intellect 

dealing with the noblest objects of intelligence. 



Therefore the conclusion remains that

the final happiness of man consists in contemplation 

guided by wisdom to the study of the things of God. 



Thus we have reached by way of induction the same conclusion that

was formerly established by deductive reasoning,

[573] that the final happiness of man

does not consist in anything short of the contemplation of God.


CHAPTER XXXVII-
-That the Final Happiness of Man 
consists in the Contemplation of God

OF GOD AND HIS CREATURES 
An Annotated Translation (With some Abridgement) 
of the SUMMA CONTRA GENTILES 
Of ST.  THOMAS AQUINAS 
By JOSEPH RICKABY, S.J.

lunedì 5 dicembre 2016

il governo e la gerarchia dei ministri


Sembra che tutte le cose 
siano governate immediatamente da Dio. 

Infatti: 

1. S. Gregorio Nisseno 
[Nemesio, De nat. hom. 44] 
biasima l'opinione di Platone che aveva distinto 
tre specie di provvidenza: 

la prima attribuita al Dio supremo, 
che avrebbe cura delle cose celesti e di tutti gli enti universali; 

la seconda attribuita a dei di secondo grado, 
i quali si aggirerebbero per il cielo 
occupandosi delle cose soggette alla generazione e alla corruzione; 

la terza affidata a certi demoni, 
che sorveglierebbero le azioni umane sopra la terra. 

Quindi tutte le cose devono essere governate immediatamente da Dio. 

2. Se è possibile, è meglio che una cosa sia fatta 
da uno solo che da molti, come dice Aristotele [Phys. 8, 6]. 

Ma Dio è in grado di governare tutte le cose da solo, 
senza bisogno di cause intermedie. 

Quindi le governa tutte immediatamente. 

3. In Dio non c'è nulla di difettoso e di imperfetto.
 
Ma governare per mezzo di altri 
si deve a un difetto di chi governa: 

infatti un re terreno è costretto ad avere dei ministri 
per governare perché non arriva a fare tutto da sé, 
e non è presente dovunque nel suo regno. 

Quindi Dio governa tutte le cose immediatamente. 

In contrario: 

Scrive S. Agostino [De Trin. 3, 4]: 
"Come i corpi di materia più densa e di grado inferiore 
sono retti gerarchicamente dai corpi di materia più sottile e di maggiore energia, 
così tutti i corpi sono retti dallo spirito dotato di vita intellettuale, 
e lo spirito che ha abbandonato Dio costituendosi peccatore 
è retto dallo spirito rimasto giusto e pio, 
e questo infine è retto immediatamente da Dio".

Rispondo: 

Nel governo bisogna distinguere due cose
il piano o disegno di governo, che è la stessa provvidenza, 
e l'esecuzione.
 
Rispetto dunque al piano di governo 
Dio dirige tutti gli esseri immediatamente; 
quanto invece all'esecuzione Dio governa alcuni esseri per mezzo di altri. 

E la ragione è che, essendo Dio la bontà per essenza, 
qualunque cosa venga attribuita a lui 
gli va attribuita nella maniera più perfetta. 

Ora, in ogni genere di disegno o di conoscenza pratica, 
qual è appunto il piano di governo, 
la perfezione consiste nel raggiungere i singolari concreti, 
sui quali si deve agire: 

così, p. es., non sarà medico perfetto 
colui che ha del malato e della malattia delle nozioni astratte, 
ma chi ha oltre a ciò la capacità di considerare 
anche i minimi particolari
e lo stesso si dica di ogni altra conoscenza pratica.
 
Quindi è necessario affermare che Dio 
ha un piano di governo tale da raggiungere anche i minimi particolari. 

Ma poiché l'atto del governare 
ha il compito di condurre alla perfezione gli esseri governati, 
sarà tanto migliore il governo 
quanto maggiore sarà la perfezione comunicata, 
da chi governa, alle cose governate. 

Ora, si ha certo una maggiore perfezione nel far si 
che una cosa sia buona in se stessa e insieme sia causa di bontà nelle altre
che non nel rendere la cosa buona soltanto in se stessa.
 
Dio perciò governa le cose in maniera da rendere 
alcune di esse cause rispetto al governo di altre: 

come un maestro che rendesse i suoi alunni non solo dotti, 
ma anche capaci di insegnare agli altri. 

Soluzione delle difficoltà: 

1. L'opinione di Platone è biasimata perché nega a Dio 
il governo immediato di tutte le cose 
anche rispetto al piano o disegno di governo. 
Infatti egli distingueva tre specie nella provvidenza, 
che è il piano di governo.
 
2. Se Dio governasse da solo 
verrebbe a mancare alle cose la dignità di cause. 
Quindi da uno solo non verrebbe attuato tutto ciò che è attuato da molti.
 
3. Il fatto che un re terreno abbia, nel governare, 
degli esecutori delle proprie direttive 
non denota soltanto la sua imperfezione, 
ma anche la sua dignità: 

il potere regio infatti acquista maggior decoro 
grazie alla gerarchia dei ministri.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, I, q. 103, a. 6

lunedì 28 novembre 2016

quando giudicare?


Sembra che non sia lecito giudicare. 

Infatti: 

1. Il castigo non viene inflitto che per una cosa illecita. 

Ma secondo il Vangelo [Mt 7, 1] coloro che giudicano 
sono sotto la minaccia di un castigo 
che è risparmiato invece a quelli che se ne astengono: 

"Non giudicate, per non essere giudicati".
Quindi giudicare non è una cosa lecita.

2. S. Paolo [Rm 14, 4] scrive: 

"Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? 
Sia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone". 

Ora, è Dio il padrone di tutti.
Perciò a nessun uomo è lecito giudicare.

3. Nessun uomo è senza peccato, poiché sta scritto [1 Gv 1, 8]
"Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi".
 
Ma a chi pecca è proibito di giudicare, 
secondo le parole di S. Paolo [Rm 2, 1]

"Sei dunque inescusabile chiunque tu sia, o uomo che giudichi: 
poiché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; 
infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose". 

Quindi nessuno è in grado di giudicare. 

In contrario: 

Sta scritto nel Deuteronomio [16, 18]

"Ti costituirai giudici e scribi in tutte le città: 
essi giudicheranno il popolo con giuste sentenze"

Rispondo: 

Il giudizio in tanto è lecito in quanto è un atto di giustizia. 

Ora, stando alle cose già dette [a. prec., ad 1, 3], 
affinché il giudizio sia un atto di giustizia si richiedono tre cose: 

primo, che derivi dall'abito della giustizia; 
secondo, che derivi dall'autorità di uno che comanda; 
terzo, che sia emanato secondo la retta norma della prudenza.

Quando dunque manca uno qualsiasi di questi elementi, 
allora il giudizio è vizioso e illecito.

In un primo modo quando uno va contro la rettitudine della giustizia: 
e allora il suo giudizio viene detto perverso, o ingiusto.

In un secondo modo invece quando uno giudica 
di cose su cui non ha autorità
e allora si parla di un giudizio usurpato.

Quando poi manca la certezza nella ragione
come quando uno giudica di cose dubbie od occulte 
basandosi su delle semplici supposizioni, 
allora si ha un giudizio sospettoso, o temerario

Soluzione delle difficoltà: 

1. Secondo S. Agostino [De serm. Dom. in monte 2, 18], 
in quel passo il Signore proibisce il giudizio temerario, 
che vuole giudicare le intenzioni e altre cose occulte. 

Oppure, stando a S. Ilario [In Mt 5], 
il Signore intendeva proibire il giudizio sulle cose divine, 
che noi non dobbiamo giudicare, 
essendo esse al di sopra di noi, ma semplicemente credere. 

Oppure egli intendeva proibire il giudizio 
fatto senza benevolenza e con animosità, 
secondo la spiegazione del Crisostomo 
[Op. imperf. in Mt hom. 17]. 

2. Il giudice viene costituito ministro di Dio. 

Per cui sta scritto [Dt 1, 16]: 
"Giudicate con giustizia"

e si aggiunge [v. 17]: 
"poiché il giudizio appartiene a Dio".

3. Coloro che sono in peccato mortale 
non devono giudicare quelli che sono nello stesso peccato, 
o in peccati meno gravi, 
come dice il Crisostomo [In Mt hom. 24] 
a commento delle parole evangeliche [Mt 7, 1]: 
"Non giudicate "

E ciò va inteso specialmente quando si tratta di peccati pubblici
poiché ne nascerebbe uno scandalo nella mente altrui.
 
Se invece i peccati non sono pubblici, ma occulti, 
e urge per ufficio la necessità di giudicare, 
con umiltà e tremore uno può rimproverare e giudicare.
 
Così infatti S. Agostino [De serm. Dom. in monte 2, 19] scriveva: 

"Se ci trovassimo nel medesimo peccato, 
gemiamone insieme, 
e invitiamoci reciprocamente a unire i nostri sforzi"

Né per questo uno condanna se stesso 
in modo da acquistare un nuovo titolo di condanna, 
ma piuttosto, condannando gli altri, 
mostra di essere anch'egli condannabile, 
per lo stesso peccato o per altri consimili.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, II-II, q. 60, a. 2

giovedì 24 novembre 2016

la giustizia ... nel giudizio

Sembra che il giudizio non sia un atto di giustizia. 

Infatti: 

1. Il Filosofo [Ethic. 1, 3] insegna che 
"ciascuno giudica bene ciò che conosce ": 
quindi il giudizio sembra appartenere alla facoltà conoscitiva.

Ma la facoltà conoscitiva riceve la sua perfezione dalla prudenza.
Perciò il giudizio appartiene più alla prudenza che alla giustizia, 
la quale, come si è visto [q. 58, a. 4], risiede nella volontà. 

2. L'Apostolo [1 Cor 2, 15] scrive che 
"l'uomo spirituale giudica ogni cosa".

Ma un uomo diventa spirituale specialmente con la virtù della carità, 
la quale "è stata riversata nei nostri cuori per mezzo 
dello Spirito Santo che ci è stato dato" [Rm 5, 5].

Quindi il giudizio appartiene più alla carità che alla giustizia.

3. A ogni virtù appartiene il retto giudizio sulla propria materia: 
poiché, secondo il Filosofo [Ethic. 3, 4], 

"in ogni cosa il virtuoso è regola e misura". 

Per cui il giudizio non appartiene alla giustizia 
più di quanto appartenga alle altre virtù morali.

4. Il giudizio è un compito esclusivo dei giudici, 
mentre gli atti della giustizia si riscontrano in tutti i giusti. 

Siccome quindi non sono giusti soltanto i giudici, 
sembra che il giudizio non sia un atto proprio della giustizia. 


In contrario: 

Nel Salmo [93, 15] si legge: 
"Fino a che la giustizia si concreti nel giudizio". 


Rispondo: 

Il giudizio indica propriamente l'atto del giudice come tale.
 
Giudice infatti suona ius dicens, cioè uno che dichiara il diritto. 
Ora il diritto, come si è visto [q. 57, a. 1], è l'oggetto della giustizia.

Quindi il giudizio, stando al suo primo significato, 
implica la definizione o determinazione del giusto, ossia del diritto.

Il fatto però che uno sappia ben definire 
quanto riguarda le azioni virtuose 
deriva propriamente dall'abito della virtù: 
come chi è casto sa determinare rettamente ciò che riguarda la castità.

E così il giudizio, 
che implica la retta determinazione del giusto o del diritto, 
appartiene propriamente alla giustizia.

Per cui il Filosofo [Ethic. 5, 4] afferma che 
gli uomini "ricorrono al giudice come a una giustizia animata". 

Soluzione delle difficoltà: 

1. Il termine giudizio, che nel suo primo significato 
sta a indicare la retta determinazione del diritto, 
fu esteso poi a indicare la determinazione retta di qualsiasi altra cosa, 
sia nell'ordine speculativo che nell'ordine pratico. 

In tutti i casi però il retto giudizio esige due elementi.

Primo, la facoltà che deve direttamente proferire il giudizio
E da questo lato il giudizio è un atto della ragione
infatti l'atto di dire o di definire appartiene alla ragione.

L'altro elemento è invece la disposizione di chi giudica
dalla quale dipende la sua idoneità a ben giudicare. 

E da questo lato nelle cose relative alla giustizia 
il giudizio procede dalla giustizia
come nelle cose relative alla fortezza procede dalla fortezza.

Così dunque il giudizio è un atto della giustizia 
in quanto da questa dipende l'inclinazione a ben giudicare, 
ma è un atto della prudenza in quanto questa lo proferisce.

Per cui anche la synesis, che è una parte integrante della prudenza, 
viene considerata "bene giudicativa ", 
come sopra si è detto [q. 51, a. 3]. 

2. L'uomo spirituale riceve dall'abito della carità 
l'inclinazione a giudicare rettamente di ogni cosa 
secondo le leggi divine, 
proferendo il suo giudizio mediante il dono della sapienza:
 
precisamente come il giusto lo proferisce 
mediante la virtù della prudenza secondo le regole del diritto. 

3. Le altre virtù regolano l'uomo in se stesso, 
mentre la giustizia regola l'uomo in rapporto agli altri

come si è detto [q. 58, a. 2].

Ora, uno è padrone delle cose che appartengono a lui, 
non di quelle che appartengono agli altri.

E così in ciò che riguarda le altre virtù 
si richiede solo il giudizio della persona virtuosa, 
giudizio in senso lato, come si è visto [ad 1], 

mentre in materia di giustizia 
si richiede anche il giudizio di un superiore, 
"il quale possa fare da arbitro e stendere la mano su entrambi" 
[Gb 9, 33].

Per questo il giudizio appartiene più alla giustizia che a qualsiasi altra virtù.

4. In chi comanda la giustizia si trova come virtù architettonica o magistrale, 
quasi nell'atto di imporre e di prescrivere il diritto, 
mentre nei sudditi si trova come virtù esecutrice e subordinata. 
Per cui il giudizio, che implica la determinazione del diritto, o del giusto, 
appartiene alla giustizia secondo che questa 
si trova in maniera più eccellente in chi comanda.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, II-II, q. 60, a. 1

lunedì 14 novembre 2016

quale castigo?


"L'ho abbandonato alla durezza del suo cuore, 
che seguisse il proprio consiglio"
(Salmo 81,13)

"Quando si legge che Dio abbandona l'uomo a se stesso 
non si intende escludere l'uomo dalla divina provvidenza
ma si vuole solo mostrare che non gli è stata prefissata 
una capacità operativa determinata a un solo modo di agire, 
come alle realtà naturali 
- che non agiscono se non sotto l'impulso di qualcos'altro, 
senza dirigersi da sé verso il loro fine, 
come [invece fanno] le creature razionali mediante il libero arbitrio, 
in virtù del quale deliberano e scelgono -. 

Quindi la Scrittura usa l'espressione "in balìa del suo proprio volere". 

Ma poiché lo stesso atto del libero arbitrio 
si riconduce a Dio come alla sua causa
è necessario che anche ciò che viene fatto con il libero arbitrio 
sia sottomesso alla divina provvidenza di Dio, 
come una causa particolare alla causa universale. 

- Agli uomini giusti poi Dio provvede in maniera più speciale che agli empi, 
in quanto non permette che ad essi accada 
qualcosa che ostacoli definitivamente la loro salvezza: 
poiché, come afferma l'Apostolo [Rm 8, 28], 

"tutto coopera al bene di coloro che amano Dio"

Degli empi, invece, è detto che li abbandona 
per il fatto che non li ritrae dal male morale

Non in modo tale però che siano del tutto esclusi dalla sua provvidenza: 
perché se non fossero conservati 
dalla sua provvidenza ricadrebbero nel nulla. 

- E pare che proprio da questa difficoltà sia stato mosso Cicerone 
[De divinat. 2] 
quando sottrasse alla divina provvidenza 
le realtà umane intorno a cui deliberiamo".

San Tommaso D'Aquino, Somma Teologica I, q. 22, a. 2.4  

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 " ... Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: 
"Perché parli loro in parabole?". 

Egli rispose: 
"Perché a voi è dato di conoscere 
i misteri del regno dei cieli, 
ma a loro non è dato

Così a chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; 
e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. 

Per questo parlo loro in parabole: 

perché pur vedendo non vedono, 
e pur udendo non odono e non comprendono. 

E così si adempie per loro la profezia di Isaia che dice: 

Voi udrete, ma non comprenderete, 
guarderete, ma non vedrete. 

Perché il cuore di questo popolo 
si è indurito, son diventati duri di orecchi, 
e hanno chiuso gli occhi
per non vedere con gli occhi, 
non sentire con gli orecchi 
e non intendere con il cuore e convertirsi, 
e io li risani. 

Ma beati i vostri occhi perché vedono 
e i vostri orecchi perché sentono. 

In verità vi dico: 
molti profeti e giusti hanno desiderato 
vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, 
e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l'udirono!"

Vangelo di Matteo 13, 10-17

inizio della sapienza: fede e timore


In due modi una cosa può dirsi l'inizio della sapienza

primo, perché è l'inizio della sua costituzione essenziale
secondo, perché è l'inizio dei suoi effetti.

Come l'inizio di un'arte nei suoi dati essenziali 
è dato dai princìpi da cui essa deriva, 
mentre l'inizio di tale arte nei suoi effetti 
è il punto di partenza della realizzazione del lavoro artistico: 

come se si dicesse che per l'arte muraria 
il principio è costituito dalle fondamenta 
perché è di là che il muratore comincia a operare.

Ora, essendo la sapienza la cognizione delle cose di Dio
come vedremo [q. 45, a. 1], 
i teologi e i filosofi la considerano in maniera diversa.

Poiché infatti la nostra vita è indirizzata alla fruizione di Dio 
mediante una partecipazione della natura divina, 
cioè mediante la grazia, 
noi teologi non dobbiamo considerare la sapienza 
solo come cognizione di Dio alla maniera dei filosofi, 
bensì anche quale principio direttivo della vita umana
la quale è diretta non solo dalle ragioni umane, 
ma anche dalle ragioni divine, come spiega S. Agostino [De Trin. 12, 13].

Così dunque l'inizio della sapienza 
quanto alla sua struttura essenziale sono i primi princìpi di essa, 
vale a dire gli articoli di fede. 

E da questo lato l'inizio della sapienza è la fede.

Quanto invece agli effetti l'inizio della sapienza 
è il punto da cui parte la sua operazione.

E da questo lato l'inizio della sapienza è il timore.

Per certi aspetti tuttavia il timore servile e per certi altri il timore filiale.

Infatti il timore servile è come un principio 
che dispone alla sapienza dall'esterno: 

cioè in quanto il timore del castigo allontana dal peccato 
predisponendo un soggetto agli effetti della sapienza, 
secondo le parole della Scrittura [Sir 1, 17 Vg]: 
"Il timore di Dio scaccia il peccato".

Invece il timore casto, o filiale, 
è inizio della sapienza come suo primo effetto.

Essendo infatti compito della sapienza 
il guidare la vita umana secondo le ragioni divine, 
bisogna iniziare col rispetto dell'uomo verso Dio, 
e con la sottomissione a lui: 

da ciò infatti deriva come conseguenza 
che uno si regoli in tutto secondo Dio.

San Tommaso D'Aquino, Somma Teologica II-II, q. 19, a. 7

venerdì 11 novembre 2016

lussuria e accecamento ... della mente

Quando le potenze inferiori 
sono fortemente impressionate dai loro oggetti, 
ne segue che le facoltà superiori 
vengono impedite e turbate nei loro atti. 

Ora, è specialmente nei peccati di lussuria, 
per l'intensità del piacere, che l'appetito inferiore, cioè il concupiscibile, 
si volge con violenza verso il proprio oggetto, cioè verso il bene dilettevole.

Ne segue quindi che le potenze superiori, 
cioè la ragione e la volontà, 
vengono turbate in modo gravissimo dalla lussuria.

Ora, gli atti della ragione in campo pratico sono quattro. 

Primo, la semplice intellezione, che intuisce il fine come un bene. 

E questo atto viene compromesso dalla lussuria, 
secondo le parole di Daniele [13, 56]: 
"La bellezza ti ha sedotto, la passione ti ha pervertito il cuore". 
E abbiamo così l'accecamento della mente

Il secondo atto è la deliberazione sui mezzi da usare per raggiungere il fine. 

E anche questo viene impedito dalla concupiscenza della lussuria: 
per cui Terenzio [Eunuch. 1, 1] poteva dire dell'amore libidinoso: 
"È una cosa che in sé non ha né deliberazione né misura, 
e tu non puoi governarlo con la riflessione". 

E così abbiamo la precipitazione, 
che implica mancanza di deliberazione, 
come sopra [q. 53, a. 3] si è detto. 

Il terzo atto è il giudizio sulle azioni da compiere. 

E anche questo viene impedito dalla lussuria; 
si legge infatti in Daniele [13, 9] a proposito dei [due] vecchi lussuriosi: 
"Persero il lume della ragione, così da non ricordarsi del giusto giudizio".
E quanto a ciò viene posta l'inconsiderazione. 

Il quarto atto è il comando esecutivo della ragione. 

E anche questo viene impedito dalla lussuria: 
poiché dall'impeto della concupiscenza 
l'uomo viene impedito dall'eseguire ciò che si era proposto di fare.
 
Per cui Terenzio [l. cit.] così parla di un innamorato 
che diceva di volersi separare dalla sua amante: 
"Tutte queste parole saranno sopraffatte dalla prima lacrimuccia bugiarda".


Dalla parte poi della volontà conseguono due atti disordinati. 

Il primo riguarda il desiderio del fine, 
per cui si ha l'amore di sé, 
a motivo cioè del piacere che il lussurioso brama disordinatamente, 
e per opposizione l'odio di Dio, 
in quanto cioè Dio proibisce la concupiscenza dei piaceri. 

Il secondo riguarda invece il desiderio dei mezzi, 
per cui si ha l'attaccamento alla vita presente, 
nella quale il lussurioso vuole godersi il piacere, 
mentre all'opposto si ha la disperazione della vita futura, 
poiché chi è troppo preso dai piaceri carnali 
non si cura di raggiungere i beni spirituali, di cui sente fastidio.
 
San Tommaso D'Aquino, Somma Teologica, II-II, q. 153, a. 5 

mercoledì 9 novembre 2016

illusione di un mondo irreale


La pornografia 
consiste nel sottrarre all'intimità dei partner 
gli atti sessuali, reali o simulati, 
per esibirli deliberatamente a terze persone. 

Offende la castità perché snatura l'atto coniugale, 
dono intimo e reciproco degli sposi. 

Lede gravemente la dignità di coloro che vi si prestano 
(attori, commercianti, pubblico), 
poiché l'uno diventa per l'altro oggetto 
di un piacere rudimentale e di un illecito guadagno. 

Immerge gli uni e gli altri nell'illusione di un mondo irreale. 

È una colpa grave. 

Le autorità civili devono impedire la produzione 
e la diffusione di materiali pornografici.


CCC, 2354
http://www.vatican.va/archive/catechism_it/p3s2c2a6_it.htm

venerdì 4 novembre 2016

creazione, male e provvidenza

 Se Dio Padre onnipotente, 
Creatore del mondo ordinato e buono, 
si prende cura di tutte le sue creature, 
perché esiste il male?

A questo interrogativo tanto pressante quanto inevitabile, tanto doloroso quanto misterioso, nessuna risposta immediata potrà bastare. È l'insieme della fede cristiana che costituisce la risposta a tale questione: la bontà della creazione, il dramma del peccato, l'amore paziente di Dio che viene incontro all'uomo con le sue alleanze, con l'incarnazione redentrice del suo Figlio, con il dono dello Spirito, con la convocazione della Chiesa, con la forza dei sacramenti, con la vocazione ad una vita felice, alla quale le creature libere sono invitate a dare il loro consenso, ma alla quale, per un mistero terribile, possono anche sottrarsi. 

Non c'è un punto del messaggio cristiano che non sia, 
per un certo aspetto, una risposta al problema del male.

Ma perché Dio non ha creato 
un mondo a tal punto perfetto 
da non potervi essere alcun male? 

Nella sua infinita potenza, Dio potrebbe sempre creare qualcosa di migliore. Tuttavia, nella sua sapienza e nella sua bontà infinite, Dio ha liberamente voluto creare un mondo « in stato di via » verso la sua perfezione ultima. Questo divenire, nel disegno di Dio, comporta, con la comparsa di certi esseri, la scomparsa di altri, con il più perfetto anche il meno perfetto, con le costruzioni della natura anche le distruzioni. Quindi, insieme con il bene fisico esiste anche il male fisico, finché la creazione non avrà raggiunto la sua perfezione.

 Gli angeli e gli uomini, creature intelligenti e libere, devono camminare verso il loro destino ultimo per una libera scelta e un amore di preferenza. Essi possono, quindi, deviare. In realtà, hanno peccato. È così che nel mondo è entrato il male morale, incommensurabilmente più grave del male fisico. Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene:

« Infatti Dio onnipotente [...], essendo supremamente buono, non permetterebbe mai che un qualsiasi male esistesse nelle sue opere, se non fosse sufficientemente potente e buono da trarre dal male stesso il bene ».

 Così, col tempo, si può scoprire che Dio, nella sua provvidenza onnipotente, può trarre un bene dalle conseguenze di un male, anche morale, causato dalle sue creature: « Non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio. [...] Se voi avete pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene [...] per far vivere un popolo numeroso » (Gn 45,8; 50,20). 

Dal più grande male morale che mai sia stato commesso, il rifiuto e l'uccisione del Figlio di Dio, causata dal peccato di tutti gli uomini, Dio, con la sovrabbondanza della sua grazia, ha tratto i più grandi beni: la glorificazione di Cristo e la nostra redenzione. Con ciò, però, il male non diventa un bene.
 « Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio » (Rm 8,28). 


La testimonianza dei santi non cessa di confermare questa verità:

Così santa Caterina da Siena dice 
a « coloro che si scandalizzano » e si ribellano 
davanti a ciò che loro capita: 
« Tutto viene dall'amore, tutto è ordinato alla salvezza dell'uomo, 
Dio non fa niente se non a questo fine ».

E san Tommaso Moro, 
poco prima del martirio, consola la figlia: 
« Non accade nulla che Dio non voglia, 
e io sono sicuro che qualunque cosa avvenga, 
per quanto cattiva appaia, 
sarà in realtà sempre per il meglio ».

E Giuliana di Norwich: 
« Imparai dalla grazia di Dio che 
dovevo rimanere fermamente nella fede, 
e quindi dovevo saldamente e perfettamente credere 
che tutto sarebbe finito in bene [...]. 
Tu stessa vedrai che ogni specie di cosa sarà per il bene ».

Noi crediamo fermamente che Dio è Signore del mondo e della storia. Ma le vie della sua provvidenza spesso ci rimangono sconosciute. Solo alla fine, quando avrà termine la nostra conoscenza imperfetta e vedremo Dio « a faccia a faccia » (1 Cor 13,12), conosceremo pienamente le vie lungo le quali, anche attraverso i drammi del male e del peccato, Dio avrà condotto la sua creazione fino al riposo di quel Sabato definitivo, in vista del quale ha creato il cielo e la terra.

CCC, p.1, s.2, c.1, p.4 
http://www.vatican.va/archive/catechism_it/p1s2c1p4_it.htm

martedì 18 ottobre 2016

apertura alla vita nel matrimonio


La fecondità è un dono, un fine del matrimonio; infatti l'amore coniugale tende per sua natura ad essere fecondo. Il figlio non viene ad aggiungersi dall'esterno al reciproco amore degli sposi; sboccia nel cuore stesso del loro mutuo dono, di cui è frutto e compimento. Perciò la Chiesa, che « sta dalla parte della vita », insegna che « qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto per sé alla trasmissione della vita ».

« Tale dottrina, più volte esposta dal Magistero della Chiesa, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l'uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell'atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo ».

 Chiamati a donare la vita, gli sposi partecipano della potenza creatrice e della paternità di Dio. « Nel compito di trasmettere la vita umana e di educarla, che deve essere considerato come la loro propria missione, i coniugi sanno di essere cooperatori dell'amore di Dio Creatore e come suoi interpreti. E perciò adempiranno il loro dovere con umana e cristiana responsabilità ».

 Un aspetto particolare di tale responsabilità riguarda la regolazione della procreazione. Per validi motivi gli sposi possono voler distanziare le nascite dei loro figli. Devono però verificare che il loro desiderio non sia frutto di egoismo, ma sia conforme alla giusta generosità di una paternità responsabile. Inoltre regoleranno il loro comportamento secondo i criteri oggettivi della moralità:

« Quando si tratta di comporre l'amore coniugale con la trasmissione responsabile della vita, il carattere morale del comportamento non dipende solo dalla sincera intenzione e dalla valutazione dei motivi, ma va determinato da criteri oggettivi, che hanno il loro fondamento nella natura stessa della persona umana e dei suoi atti, criteri che rispettano, in un contesto di vero amore, l'integro senso della mutua donazione e della procreazione umana; e tutto ciò non sarà possibile se non venga coltivata con sincero animo la virtù della castità coniugale ».

 « Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l'atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore e il suo ordinamento all'altissima vocazione dell'uomo alla paternità ».

 La continenza periodica, i metodi di regolazione delle nascite basati sull'auto-osservazione e il ricorso ai periodi infecondi sono conformi ai criteri oggettivi della moralità. Tali metodi rispettano il corpo degli sposi, incoraggiano tra loro la tenerezza e favoriscono l'educazione ad una libertà autentica. Al contrario, è intrinsecamente cattiva « ogni azione che, o in previsione dell'atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione ».

« Al linguaggio nativo che esprime la reciproca donazione totale dei coniugi, la contraccezione impone un linguaggio oggettivamente contraddittorio, quello cioè del non donarsi all'altro in totalità: ne deriva non soltanto il positivo rifiuto all'apertura alla vita, ma anche una falsificazione dell'interiore verità dell'amore coniugale, chiamato a donarsi in totalità personale. [...] La differenza antropologica e al tempo stesso morale, che esiste tra la contraccezione e il ricorso ai ritmi temporali [...], coinvolge in ultima analisi due concezioni della persona e della sessualità umana tra loro irriducibili ».

« Sia chiaro a tutti che la vita dell'uomo e il compito di trasmetterla non sono limitati solo a questo tempo e non si possono commisurare e capire in questo mondo soltanto, ma riguardano sempre il destino eterno degli uomini ».

CCC, 2366-2371
http://www.vatican.va/archive/catechism_it/p3s2c2a6_it.htm 

lunedì 10 ottobre 2016

fede e opere: segno, frutto ... e merito


4.6 La certezza della salvezza

34. Insieme confessiamo che i credenti possono fare affidamento sulla misericordia e sulle promesse di Dio. Anche nella loro debolezza e nelle molteplici minacce che mettono in pericolo la loro fede, essi possono contare, in forza della morte e della resurrezione di Cristo, sulla promessa efficace della grazia di Dio nella Parola e nel sacramento ed essere così certi di questa grazia.

35. I riformatori hanno accentuato in modo particolare il fatto che, nella prova, il credente non deve rivolgere lo sguardo a se stesso, ma a Cristo e fare affidamento in modo totale soltanto su di lui. Riponendo così la sua fiducia nella promessa di Dio, egli è certo della sua salvezza, mentre non ne è mai certo se guarda a se stesso.

36. I cattolici possono condividere l’orientamento dei riformatori che consiste nel fondare la fede sulla realtà oggettiva della promessa di Cristo, a prescindere dalla personale esperienza e nel confidare unicamente nella promessa di Cristo (cfr. Mt 16, 19 ; 18, 18). Con il Concilio Vaticano II, i cattolici affermano che credere significa abbandonarsi interamente a Dio, che ci libera dalle tenebre del peccato e della morte e ci desta alla vita eterna. In questo senso l’uomo non può credere in Dio e contemporaneamente ritenere che la sua promessa non è affidabile. Nessuno può dubitare della misericordia di Dio e del merito di Cristo, allorché ciascuno può temere per la sua salvezza se considera le sue debolezze e le sue mancanze. Il credente, pur conoscendo i suoi fallimenti, può essere certo che Dio vuole la sua salvezza (cfr. fonti del cap. 4.6).

4.7 Le buone opere del giustificato

37. Insieme confessiamo che le buone opere — una vita cristiana nella fede nella speranza e nell’amore — sono la conseguenza della giustificazione e ne rappresentano i frutti. Quando il giustificato vive in Cristo e agisce nella grazia che ha ricevuto, egli dà, secondo un modo di esprimersi biblico, dei buoni frutti. Tale conseguenza della giustificazione è per il cristiano anche un dovere da assolvere, in quanto egli lotta contro il peccato durante tutta la sua vita ; per questo motivo Gesù e gli scritti apostolici esortano i cristiani a compiere opere d’amore.

38. Secondo la concezione cattolica, le buone opere, compiute per mezzo della grazia e dell’azione dello Spirito Santo, contribuiscono ad una crescita nella grazia, di modo che la giustizia ricevuta da Dio è preservata e la comunione con Cristo approfondita. Quando i cattolici affermano il «carattere meritorio» delle buone opere, essi intendono con ciò che, secondo la testimonianza biblica, a queste opere è promesso un salario in cielo. La loro intenzione è di sottolineare la responsabilità dell’uomo nei confronti delle sue azioni, senza contestare con ciò il carattere di dono delle buone opere, e tanto meno negare che la giustificazione stessa resta un dono immeritato della grazia.

39. Anche nei luterani si riscontra il concetto di una preservazione della grazia e di una crescita nella grazia e nella fede. Anzi, essi sottolineano che la giustizia in quanto accettazione da parte di Dio e partecipazione alla giustizia di Cristo, è sempre perfetta. Al tempo stesso affermano che i suoi effetti possono crescere nella vita cristiana. Considerando le buone opere del cristiano come «frutti» e «segni» della giustificazione e non «meriti» che gli sono propri, essi comprendono, allo stesso modo, conformemente al Nuovo Testamento, la vita eterna come «salario» immeritato nel senso del compimento della promessa di Dio ai credenti (cfr. Fonti del cap. 4.7).

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/documents/
rc_pc_chrstuni_doc_31101999_cath-luth-joint-declaration_it.html#_ftn8



martedì 4 ottobre 2016

La luce nella città degli uomini (2)

54. Assimilata e approfondita in famiglia, 
la fede diventa luce per illuminare tutti i rapporti sociali. 

Come esperienza della paternità di Dio 
e della misericordia di Dio, 
si dilata poi in cammino fraterno. 

Nella "modernità" si è cercato di costruire 
la fraternità universale tra gli uomini, 
fondandosi sulla loro uguaglianza. 

A poco a poco, però, abbiamo compreso che questa fraternità, 
privata del riferimento a un Padre comune 
quale suo fondamento ultimo, 
non riesce a sussistere. 

Occorre dunque tornare alla vera radice della fraternità. 
La storia di fede, fin dal suo inizio, 
è stata una storia di fraternità, anche se non priva di conflitti. 

Dio chiama Abramo ad uscire dalla sua terra 
e gli promette di fare di lui un’unica grande nazione, 
un grande popolo, sul quale riposa la Benedizione divina (cfr Gen 12,1-3). 

Nel procedere della storia della salvezza, 
l’uomo scopre che Dio vuol far partecipare tutti, 
come fratelli, all'unica benedizione, 
che trova la sua pienezza in Gesù, affinché tutti diventino uno. 

L’amore inesauribile del Padre ci viene comunicato, 
in Gesù, anche attraverso la presenza del fratello. 

La fede ci insegna a vedere 
che in ogni uomo c’è una benedizione per me, 
che la luce del volto di Dio 
mi illumina attraverso il volto del fratello. 

Quanti benefici ha portato 
lo sguardo della fede cristiana alla città degli uomini 
per la loro vita comune! 

Grazie alla fede abbiamo capito 
la dignità unica della singola persona, 
che non era così evidente nel mondo antico. 

Nel secondo secolo, il pagano Celso 
rimproverava ai cristiani quello che a lui pareva 
un’illusione e un inganno: 

pensare che Dio avesse creato il mondo per l’uomo, 
ponendolo al vertice di tutto il cosmo. 

Si chiedeva allora: 
« Perché pretendere che [l’erba] cresca per gli uomini, 
e non meglio per i più selvatici degli animali senza ragione? », 

« Se guardiamo la terra dall’alto del cielo, 
che differenza offrirebbero le nostre attività 
e quelle delle formiche e delle api? ». 

Al centro della fede biblica, 
c’è l’amore di Dio, la sua cura concreta per ogni persona, 
il suo disegno di salvezza che abbraccia tutta l’umanità 
e l’intera creazione e che raggiunge il vertice 
nell’Incarnazione, Morte e Risurrezione di Gesù Cristo. 

Quando questa realtà viene oscurata, 
viene a mancare il criterio per distinguere 
ciò che rende preziosa e unica la vita dell’uomo. 

Egli perde il suo posto nell’universo, 
si smarrisce nella natura, 
rinunciando alla propria responsabilità morale, 
oppure pretende di essere arbitro assoluto, 
attribuendosi un potere di manipolazione senza limiti.

55. La fede, inoltre, nel rivelarci l’amore di Dio Creatore, 
ci fa rispettare maggiormente la natura, 
facendoci riconoscere in essa una grammatica da Lui scritta 
e una dimora a noi affidata perché sia coltivata e custodita; 

ci aiuta a trovare modelli di sviluppo 
che non si basino solo sull'utilità e sul profitto, 
ma che considerino il creato come dono, 
di cui tutti siamo debitori; 

ci insegna a individuare forme giuste di governo, 
riconoscendo che l’autorità viene da Dio 
per essere al servizio del bene comune. 

La fede afferma anche la possibilità del perdono, 
che necessita molte volte di tempo, 
di fatica, di pazienza e di impegno; 

perdono possibile se si scopre che il bene 
è sempre più originario e più forte del male, 
che la parola con cui Dio afferma la nostra vita 
è più profonda di tutte le nostre negazioni. 

Anche da un punto di vista semplicemente antropologico, 
d’altronde, l’unità è superiore al conflitto; 
dobbiamo farci carico anche del conflitto,
 ma il viverlo deve portarci a risolverlo, a superarlo, 
trasformandolo in un anello di una catena, in uno sviluppo verso l’unità.

Quando la fede viene meno, 
c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere 
vengano meno, come ammoniva il poeta T. S. Eliot: 

« Avete forse bisogno che vi si dica 
che perfino quei modesti successi / 
che vi permettono di essere fieri di una società educata / 
difficilmente sopravviveranno alla fede 
a cui devono il loro significato? ». 

Se togliamo la fede in Dio dalle nostre città, 
si affievolirà la fiducia tra di noi, 
ci terremmo uniti soltanto per paura, 
e la stabilità sarebbe minacciata. 

La Lettera agli Ebrei afferma: 
« Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. 
Ha preparato infatti per loro una città » (Eb 11,16). 

L’espressione "non vergognarsi" 
è associata a un riconoscimento pubblico. 

Si vuol dire che Dio confessa pubblicamente, 
con il suo agire concreto, la sua presenza tra noi, 
il suo desiderio di rendere saldi i rapporti tra gli uomini. 

Saremo forse noi a vergognarci di chiamare Dio il nostro Dio? 
Saremo noi a non confessarlo come tale nella nostra vita pubblica, 
a non proporre la grandezza della vita comune 
che Egli rende possibile? 

La fede illumina il vivere sociale; 
essa possiede una luce creativa 
per ogni momento nuovo della storia, 
perché colloca tutti gli eventi in rapporto 
con l’origine e il destino di tutto 
nel Padre che ci ama.

Papa Francesco, Lumen Fidei (29 Giugno 2013), n° 54-55
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/
papa-francesco_20130629_enciclica-lumen-fidei.html

domenica 25 settembre 2016

La luce nella città degli uomini (1)


52. Nel cammino di Abramo verso la città futura, 
la Lettera agli Ebrei accenna alla benedizione 
che si trasmette dai genitori ai figli 
(cfr Eb 11, 20-21). 

Il primo ambito in cui la fede illumina 
la città degli uomini si trova nella famiglia. 

Penso anzitutto all’unione stabile 
dell’uomo e della donna nel matrimonio. 

Essa nasce dal loro amore, segno e presenza dell’amore di Dio, 
dal riconoscimento e dall’accettazione della bontà della differenza sessuale, 
per cui i coniugi possono unirsi in una sola carne (cfr Gen 2,24) 
e sono capaci di generare una nuova vita, 
manifestazione della bontà del Creatore, 
della sua saggezza e del suo disegno di amore. 

Fondati su quest’amore, 
uomo e donna possono promettersi l’amore mutuo 
con un gesto che coinvolge tutta la vita 
e che ricorda tanti tratti della fede. 

Promettere un amore che sia per sempre 
è possibile quando si scopre un disegno più grande dei propri progetti, 
che ci sostiene e ci permette di donare l’intero futuro alla persona amata. 

La fede poi aiuta a cogliere in tutta la sua profondità e ricchezza 
la generazione dei figli, perché fa riconoscere in essa 
l’amore creatore che ci dona e ci affida il mistero di una nuova persona. 
È così che Sara, per la sua fede, è diventata madre, 
contando sulla fedeltà di Dio alla sua promessa 
(cfr Eb11,11).

53. In famiglia, la fede accompagna tutte le età della vita, 
a cominciare dall’infanzia: 
i bambini imparano a fidarsi dell’amore dei loro genitori. 

Per questo è importante che i genitori coltivino 
pratiche comuni di fede nella famiglia, 
che accompagnino la maturazione della fede dei figli. 

Soprattutto i giovani, 
che attraversano un’età della vita così complessa, 
ricca e importante per la fede, 
devono sentire la vicinanza e l’attenzione della famiglia 
e della comunità ecclesiale nel loro cammino di crescita nella fede. 

Tutti abbiamo visto come, nelle Giornate Mondiali della Gioventù, 
i giovani mostrino la gioia della fede, 
l’impegno di vivere una fede sempre più salda e generosa. 

I giovani hanno il desiderio di una vita grande. 
L’incontro con Cristo, il lasciarsi afferrare 
e guidare dal suo amore allarga l’orizzonte dell’esistenza, 
le dona una speranza solida che non delude. 

La fede non è un rifugio per gente senza coraggio, 
ma la dilatazione della vita. 
Essa fa scoprire una grande chiamata, 
la vocazione all’amore, e assicura che quest’amore è affidabile, 
che vale la pena di consegnarsi ad esso, 
perché il suo fondamento si trova nella fedeltà di Dio, 
più forte di ogni nostra fragilità.

Papa Francesco. Lumen Fidei, La fede e la famiglia
https://w2.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20130629_enciclica-lumen-fidei.html

venerdì 2 settembre 2016

ricordando la moglie di Lot

riflessione da correggere
per amor di verità ... per amore dei giovani


"... audace è la preghiera di intercessione 
di Abramo a favore di Sodoma. 
Una città sulla quale nessuno avrebbe scommesso niente, 
eccetto Abramo. 

La sua preghiera di intercessione 
e la sua voglia di osare salvano Sodoma. 

La città è salva perché ci sono i giusti, anche se pochi; 
ma la città è salva soprattutto perché c’è Abramo uomo di preghiera, 
che non fa da accusatore implacabile, 
non parla contro ma parla a favore. 

Abramo, uomo di preghiera, non denuncia i misfatti, 
ma annuncia la possibilità di qualcosa di nuovo. 

Abramo, uomo di preghiera, annuncia e invita a guardare alle possibilità positive. 

Abramo, uomo di preghiera, 
è un instancabile cercatore di segni di speranza 
da presentare al Signore perché li valorizzi".

http://www.nunziogalantino.it/sermon/omelia-per-i-giovani-italiani-alla-gmg-2016/


"Come avvenne anche al tempo di Lot: 
mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, 
piantavano, costruivano;

ma nel giorno in cui Lot uscì da Sòdoma 
piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece perire tutti.

Così sarà nel giorno in cui il Figlio dell'uomo si rivelerà.

In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza, 
se le sue cose sono in casa, non scenda a prenderle; 
così chi si troverà nel campo, non torni indietro.

Ricordatevi della moglie di Lot.

Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, 
chi invece la perde la salverà".

Vangelo di Luca 17, 28-33

La preghiera del giusto fatta con insistenza ...
... una speranza per i giovani 

"Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa 
e preghino su di lui, 
dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. 

E la preghiera fatta con fede salverà il malato: 
il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, 
gli saranno perdonati. 

Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri 
e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. 

Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza. 

Elia era un uomo della nostra stessa natura: 
pregò intensamente che non piovesse 
e non piovve sulla terra per tre anni e sei mesi. 

Poi pregò di nuovo 
e il cielo diede la pioggia 
e la terra produsse il suo frutto. 

Fratelli miei, 
se uno di voi si allontana dalla verità 
e un altro ve lo riconduce, 
costui sappia che chi riconduce 
un peccatore dalla sua via di errore, 
salverà la sua anima dalla morte 
e coprirà una moltitudine di peccati".

Giacomo 5, 14-20

mercoledì 10 agosto 2016

principio della sapienza ... nella vecchiaia


3] Nella giovinezza non hai raccolto; 
come potresti procurarti qualcosa nella vecchiaia? 

[4] Come s'addice il giudicare ai capelli bianchi, 
e agli anziani intendersi di consigli! 

[5] Come s'addice la sapienza ai vecchi, 
il discernimento e il consiglio alle persone eminenti! 

[6] Corona dei vecchi è un'esperienza molteplice, 
loro vanto il timore del Signore. 

[7] Nove situazioni io ritengo felici nel mio cuore, 
la decima la dirò con le parole: 
un uomo allietato dai figli, 
chi vede da vivo la caduta dei suoi nemici; 

[8] felice chi vive con una moglie assennata, 
colui che non pecca con la sua lingua, 
chi non deve servire a uno indegno di lui; 

[9] fortunato chi ha trovato la prudenza, 
chi si rivolge a orecchi attenti; 

[10] quanto è grande chi ha trovato la sapienza, 
ma nessuno supera chi teme il Signore. 

Siracide 25, 3-10
http://www.vatican.va/archive/ITA0001/__PLS.HTM

lunedì 8 agosto 2016

la luce e l'intelligenza

Il problema centrale del Nuovo Saggio sull'origine delle idee è la questione del rapporto tra intelligenza e verità: quali sono le capacità e i limiti dell'intelligenza umana? Che cosa si deve intendere quando si parla di verità? Che cos'è il pensiero e che cosa esattamente produce? 

La convinzione di fondo di Rosmini è che il pensiero moderno abbia complessivamente perduto, rispetto alla tradizione classica e medievale, il significato autentico di che cosa significa pensare. 

Quello che soprattutto Rosmini imputa a gran parte della filosofia moderna è di non aver capito che il «sentire» e il «pensare», per quanto strettamente connessi tra loro, sono processi del tutto diversi e non possono essere ridotti l'uno all'altro. 

Secondo Rosmini, un'attenta analisi della pura e semplice esperienza sensoriale mostra chiaramente che la dinamica della sensazione è essenzialmente egocentrica: la sensazione è sempre una «mia» modificazione; in ogni cosa sentita io sento sempre «me stesso» modificato da una qualche realtà esterna. L'intelligenza invece non è un processo in cui io vengo modificato da qualcosa che viene a me, è viceversa una specie di movimento in cui io esco da me stesso per aprirmi a ciò che rimane «altro» da me. 

Ecco come Rosmini definisce la differenza tra il sentire e il conoscere intellettivo: «Sentire [...] è unire, immedesimare con sé; conoscere è separare, distinguer da sé: sentire suppone vari stati d'un soggetto identificati per l'identità del soggetto; conoscere suppone diversità assoluta del soggetto stesso conoscente dalla cosa cognita» (Principi di scienza morale, p. 95, nota 6). 

Nell'atto conoscitivo dell'intelligenza la persona opera un decentramento da sé, lascia spazio a ciò che vuole conoscere, percepisce l'oggetto nel modo di «essere» che è proprio dell'oggetto stesso. 

Pensare significa cogliere la realtà nella dimensione dell'«essere». È appunto questa presenza alla mente della dimensione dell'«essere» che Rosmini chiama «idea dell'essere». 

L'idea dell'essere è il segreto dell'intelligenza in quanto facoltà rispettosa dell'alterità di ciò che viene conosciuto. Come afferma Rosmini: «l'idea dell'essere è quella che costituisce la possibilità che abbiamo d'uscir di noi [...] cioè di pensare a cose da noi diverse» (Nuovo saggio, III, n. 1081, p. 47). 

L'idea dell'essere è, per l'intelligenza umana, quello che la luce è per la vista. Come, per vedere fisicamente un oggetto, è necessario coglierlo nella luce e, se non c'è la luce, l'occhio non può produrre da sé nessuna visione, così per conoscere con l'intelligenza un oggetto è necessario coglierlo nell'idea (o nell'orizzonte) dell'essere, e se non c'è tale idea l'intelligenza non ha alcuna conoscenza. 

L'esercizio dell'intelligenza è possibile grazie alla «luce dell'essere», una luce discreta e non invadente, di cui noi facciamo uso senza nemmeno accorgercene, allo stesso modo in cui la luce fisica rende possibile la vista delle cose senza che normalmente si badi ad essa. Come afferma Rosmini: «l'uomo non può pensare a nulla senza l'idea dell'essere [...]. 

Si può definire l'intelligenza nostra la facoltà di veder l'essere [...]. Toltaci la vista dell'essere, l'intelligenza nostra è pur tolta» (Nuovo saggio, II, n. 411 e 545, pp. 27, 122). Molta parte dello sforzo filosofico di Rosmini sarà dedicato a chiarire le numerose questioni relative all'origine e alla natura dell'idea dell'essere. Di essa Rosmini cercherà di definire e spiegare le principali caratteristiche: oggettività, semplicità, unità, universalità, necessità, immutabilità, eternità, innatezza. 

L'idea dell'essere, per questi suoi caratteri, è un'apertura sull'assoluto e sull'eterno: essa è «il divino» nell'uomo, ma non va in nessun modo confusa con l'idea piena di Dio, la quale rimane al di là delle umane capacità conoscitive. 

M. DOSSI, Il santo proibito. Il Margine, Trento 2007, pp. 62-72
http://www.casanatalerosmini.it/pagina/?/antonio_rosmini/il_pensiero/idea_essere/