giovedì 28 luglio 2016

contro la pace ingiusta ... una spada

"Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati; 
non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri! 

Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, 
anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; 

chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, 
anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli. 

Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; 
non sono venuto a portare pace, ma una spada. 

Sono venuto infatti a separare 
il figlio dal padre, la figlia dalla madre, 
la nuora dalla suocera: 

e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa. 

Chi ama il padre o la madre più di me 
non è degno di me; 

chi ama il figlio o la figlia più di me 
non è degno di me; 

chi non prende la sua croce e non mi segue, 
non è degno di me. 

Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: 
e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. 

Chi accoglie voi accoglie me, 
e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 

Chi accoglie un profeta come profeta, 
avrà la ricompensa del profeta, 
e chi accoglie un giusto come giusto, 
avrà la ricompensa del giusto. 

E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca 
a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, 
in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa".

Vangelo di Matteo 10, 30-42
http://www.vatican.va/archive/ITA0001/__PTY.HTM
http://www.lalucedimaria.it/gesu-non-pensate-che-io-sia-venuto-a-mettere-pace-sulla-terra/

mercoledì 13 luglio 2016

l'ultima felicità ... la verità


Se dunque l’ultima felicità dell’uomo 
non consiste nei beni esteriori, denominati beni di fortuna; 
e neppure nei beni del corpo, 
o nei beni dell’anima rispetto alla parte sensitiva, 
o negli atti delle virtù morali rispetto a quella intellettiva; 
e neppure negli atti intellettivi relativi all’operare, 
ossia nell’esercizio dell’arte e della prudenza, 
rimane che l’ultima felicità dell’uomo consiste 
nella contemplazione della verità.

Infatti quest’ultima attività è l’unica propria dell’uomo 
e non ne partecipa affatto nessun altro animale.

Inoltre essa non è ordinata a nessun altro scopo, 
poiché la contemplazione della verità viene cercata per se stessa.

In più, mediante quest’attività 
l’uomo si unisce per somiglianza con gli esseri superiori, 
poiché tra tutte le attività umane, 
questa soltanto si trova anche in Dio e nelle sostanze separate. 
Anzi, con essa egli raggiunge questi esseri superiori 
mediante una qualche conoscenza.

E per esercitarla l’uomo è più che per altre sufficiente a se stesso, 
perché per essa si richiede un minimo di aiuto dalle cose esterne.

Inoltre, tutte le attività umane sembrano ordinate a questa funzione. 
Infatti per la perfezione della contemplazione 
si richiede il benessere del corpo, 
al quale sono ordinati tutti i prodotti dell’arte necessari alla vita. 

Si richiede inoltre il placarsi dei turbamenti delle passioni, 
al quale si giunge con le virtù morali e con la prudenza; 
e l’esclusione di turbamenti esterni, 
cui è ordinato tutto il governo della vita civile. 
Cosicché, considerando bene le cose, 
tutte le professioni umane sembrano a servizio 
di coloro che contemplano la verità.

Ora, non è possibile che l’ultima felicità dell’uomo 
consista nella contemplazione relativa ai primi princìpi, 
la quale è imperfettissima in quanto troppo generica, 
e contiene la conoscenza delle cose solo in potenza; 

questa inoltre è il principio e non il termine dello studio umano, 
derivando in noi dalla natura e non dalla ricerca della verità. 

E neppure può consistere nelle scienze delle cose più basse, 
perché la felicità deve consistere in un’operazione dell’intelletto 
riguardo i più nobili oggetti intelligibili. 

Perciò l’ultima felicità dell’uomo deve consistere 
nella contemplazione della sapienza circa le verità divine.

È così dimostrato, anche per via d’induzione, 
quanto sopra abbiamo provato con argomenti diretti, 
che cioè l’ultima felicità dell’uomo 
consiste solo nella contemplazione di Dio.

Somma contro i Gentili, Libro III, cap. XXXVII, 
tr. it. di Tito S. Centi, Utet, Torino 1997, pp. 625-626.

mercoledì 6 luglio 2016

disse il Sole al fulmine ...


Come ciascuna cosa ha l'esistenza
in forza della propria forma,
così ogni potenza conoscitiva ha l'atto del conoscere
mediante l'immagine della cosa conosciuta.

Come quindi le realtà naturali
non possono perdere l'essere che hanno in forza della loro forma,
ma possono perdere certe qualità accidentali o complementari

- p. es. l'uomo potrà non avere più i due piedi,
ma non cessare di essere uomo -,

così la potenza conoscitiva non potrà mai venir meno 
nella conoscenza relativamente all'oggetto 
dalla cui immagine è informata,
ma lo potrà rispetto a quei dati 
che lo accompagnano o gli si aggiungono.

Così la vista, come già vedemmo [a. prec.],
non si inganna circa il sensibile proprio,
ma si può ingannare circa i sensibili comuni,
a quello connessi, e circa i sensibili impropri.

Ora, come i sensi sono informati
direttamente dall'immagine dei sensibili propri,
così l'intelletto è attuato direttamente
dall'immagine dell'essenza della cosa.

Quindi l'intelletto non può errare
relativamente all'essenza delle cose,
come neanche i sensi rispetto ai sensibili propri.

Invece nell'unire o nel separare [tra loro] dei concetti
può ingannarsi quando attribuisce all'oggetto,
di cui conosce la natura, qualcosa che è ad esso estraneo,
o addirittura opposto.

Infatti l'intelletto, nel giudicare di tali cose,
si trova come i sensi quando giudicano
dei sensibili comuni o di quelli impropri.

Vi è tuttavia una differenza:
come sopra [q. 16, a. 2] si è detto a proposito della verità,
il falso si può trovare nell'intelletto
non solo perché la conoscenza dell'intelletto è falsa,
ma perché l'intelletto conosce tale falsità,
come conosce anche la verità;

nei sensi invece il falso
non si trova in quanto conosciuto,
come si è detto [a. prec.].

Poiché dunque la falsità si trova propriamente nell'intelletto
solo quando questo unisce dei concetti [nel giudizio],
essa può trovarsi accidentalmente
anche nella semplice apprensione,
mediante la quale l'intelletto conosce le essenze,
quando vi si nascondono delle composizioni di concetti.

E ciò può avvenire in due modi:

o perché l'intelletto attribuisce a una cosa
la definizione di un'altra,
p. es. se attribuisce all'uomo la definizione del cerchio,
e in questo caso la definizione di una cosa
diventa falsa se applicata a un'altra;

oppure perché in una definizione unisce delle parti
che non possono stare insieme:
e in tal caso la definizione è falsa
non solo relativamente a quella data cosa,
ma in se stessa.

Quando, p. es., l'intelletto forma questa definizione:
animale razionale quadrupede, nel definire così è falso,
poiché è falso quando esprime [in un giudizio]
questa unione di concetti:
un certo animale razionale è quadrupede.

Per cui quando si tratta di conoscere
delle quiddità o nature semplici l'intelletto
non può essere falso, ma o è vero,
oppure non conosce assolutamente nulla.

Soluzione delle difficoltà:

1. L'oggetto proprio dell'intelletto è la quiddità o essenza delle cose:
quindi, a rigore, diciamo di conoscere una data cosa
solo quando giudichiamo di essa
riportandoci alla sua essenza o natura,
come accade nelle dimostrazioni fatte senza alcun errore.

Ed è in quest'ultimo senso che va inteso il detto di S. Agostino che
"chi sbaglia non ha conoscenza della cosa in cui sbaglia",
non nel senso che non si possa sbagliare
in nessuna operazione della mente.

2. Come l'intelletto non subisce inganno 
circa la natura delle cose così, per la stessa ragione, 
è sempre retto relativamente ai primi princìpi.

Infatti i princìpi di per sé evidenti sono quelli 
che vengono conosciuti non appena ne abbiamo compresi i termini, 
dato che il loro predicato è incluso 
nella definizione del soggetto.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, I, q. 17, a. 3

lunedì 4 luglio 2016

keep calm and ... pazienza

Come scrive S. Agostino [De pat. 4], 
"è la forza del desiderio che produce 
la sopportazione delle fatiche e dei dolori; 
e nessuno accetta di sopportare il dolore se non per ciò che piace". 

E questo perché l'animo di per sé 
aborrisce la tristezza e il dolore, 
e quindi mai accetterebbe il dolore per se stesso, 
ma solo per uno scopo.

È quindi necessario che il bene per cui uno accetta di soffrire 
sia più bramato e amato di quel bene la cui privazione produce il dolore 
che sopportiamo con pazienza.

Ora, il fatto che uno preferisca il bene soprannaturale 
a tutti i beni naturali, 
la cui perdita può arrecare dolore, 
è dovuto alla carità, che ama Dio sopra tutte le cose.

Perciò è evidente che la pazienza, in quanto virtù, 
è causata dalla carità, 
secondo le parole di S. Paolo [1 Cor 13, 4]: 
"La carità è paziente". 

D'altra parte è noto che la carità non può aversi senza la grazia, 
come dice lo stesso Apostolo [Rm 5, 5]: 

"La carità di Dio è stata riversata nei nostri cuori 
per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato".

È quindi evidente che non si può avere la pazienza 
senza l'aiuto della grazia. 


Soluzione delle difficoltà: 

1. Se la natura umana fosse integra, 
in essa prevarrebbe l'inclinazione della ragione, 
ma nella natura corrotta prevale 
l'inclinazione della concupiscenza, 
che ha il predominio nell'uomo.

Perciò l'uomo è più disposto a soffrire 
là dove la concupiscenza può godere al presente, 
che non a sopportare dei mali per dei beni futuri 
desiderati solo dalla ragione, 
il che appartiene alla vera pazienza.

2. Il bene di ordine sociale, o politico, 
è proporzionato alla natura umana.
Quindi anche senza l'aiuto della grazia santificante, 
non però senza l'aiuto di Dio, 
la volontà umana può tendere ad esso.

Ma il bene proprio della grazia è soprannaturale.
Perciò l'uomo non può tendervi con la sua capacità naturale.
Per cui il paragone non regge.

3. Anche la sopportazione dei mali 
che uno accetta per la salute del corpo 
deriva dall'amore naturale che l'uomo ha per la sua carne.
Perciò l'argomento non vale per la pazienza, 
che deriva da un amore soprannaturale.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, II-II, q. 136, a. 3


sabato 2 luglio 2016

guerra per la pace e il nemico interiore

Perché una guerra sia giusta si richiedono tre cose. 

Primo, l'autorità del principe, 
per ordine del quale la guerra deve essere proclamata.
Infatti una persona privata non ha il potere di fare la guerra: 
poiché essa può difendere il proprio diritto 
ricorrendo al giudizio del suo superiore.
E anche perché non appartiene a una persona privata 
il raccogliere la moltitudine, cosa indispensabile nelle guerre.

Siccome invece
la cura della cosa pubblica è riservata ai principi, 
spetta ad essi difendere il bene pubblico della città, 
del regno o della provincia a cui presiedono.

E come lo difendono lecitamente con la spada 
contro i perturbaturi interni quando puniscono i malfattori, 
secondo le parole dell'Apostolo [Rm 13, 4]: 
"Non invano l'autorità porta la spada: 
è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male"
così spetta ad essi difendere lo stato 
dai nemici esterni con la spada della guerra.

Per cui ai principi viene anche detto nei Salmi [81, 4]: 
"Salvate il debole e l'indigente, liberatelo dalle mani dell'empio"

Per cui S. Agostino [Contra Faustum 22, 75] scrive: 
"L'ordine naturale, adattato alla pace dei mortali, 
esige che risieda presso i principi l'autorità 
e la deliberazione di ricorrere alla guerra".

Secondo, si richiede una causa giusta: 
cioè una colpa da parte di coloro contro cui si fa la guerra. 

Scrive perciò S. Agostino [Quaest. in Iosue 10]: 

"Si sogliono definire giuste le guerre che vendicano delle ingiustizie: 
cioè nel caso in cui si tratti di debellare un popolo 
o una città che hanno trascurato di punire i delitti dei loro sudditi, 
o di restituire ciò che era stato tolto ingiustamente".

Terzo, si richiede che l'intenzione di chi combatte sia retta: 
cioè che si miri a promuovere il bene e a evitare il male.
Per cui scrive ancora S. Agostino [De civ. Dei 19, 12]: 
"Presso i veri adoratori di Dio sono pacifiche anche le guerre
che vengono fatte non per cupidigia o per crudeltà, 
ma per amore della pace, 
ossia per reprimere i malvagi e soccorrere i buoni".

Può infatti capitare che, pur essendo giusta la causa 
e legittima l'autorità di chi dichiara la guerra, 
tuttavia la guerra sia resa illecita da una cattiva intenzione.

Dice perciò S. Agostino [Contra Faustum 22, 74]: 
"La brama di nuocere, la crudeltà nel vendicarsi, 
lo sdegno implacabile, la ferocia nel guerreggiare, 
la smania di sopraffare e altre cose del genere 
sono giustamente riprovate nella guerra". 

Soluzione delle difficoltà: 
1. Come dice S. Agostino [Contra Faustum 22, 70], 
"prende la spada colui che si arma 
per versare il sangue di qualcuno senza il comando 
o il permesso di alcun potere superiore o legittimo".

Chi invece usa la spada con l'autorità del principe o del giudice, 
se è una persona privata, oppure per zelo della giustizia 
e quindi con l'autorità di Dio, se è una persona pubblica, 
non prende da se stesso la spada, ma ne usa per incarico di altri.

Quindi non merita una pena.

Tuttavia anche quelli che usano la spada 
in modo peccaminoso non sempre sono uccisi di spada.
Essi però periscono sempre per la loro spada: 
perché se non si pentono 
sono puniti del peccato di spada per tutta l'eternità.

2. Come nota S. Agostino 
[De Serm. Dom. in monte 1, 19], 
tali precetti devono essere osservati sempre con le disposizioni interne: 
in modo cioè che uno sia sempre disposto a non resistere 
o a non difendersi quando ciò fosse doveroso. 
Ma talora bisogna agire diversamente per il bene comune, 
e per il bene stesso di quelli contro cui si combatte. 

S. Agostino [Epist. 137, 2] infatti scriveva: 
"Spesso bisogna adoperarsi non poco presso gli avversari 
per piegarli con benevola asprezza. 
Infatti per colui al quale viene tolta la libertà di peccare 
è un bene essere sconfitto: 
poiché nulla è più infelice della felicità di chi pecca, 
la quale accresce un'iniquità degna di pena, 
mentre la cattiva volontà si rafforza come un nemico interiore".

3. Quelli che fanno delle guerre giuste hanno di mira la pace. 
Essi perciò sono contrari solo alla pace cattiva, 
che il Signore "non è venuto a portare sulla terra", 
come dice il Vangelo [Mt 10, 34]. 

Per cui scriveva S. Agostino a Bonifacio [Epist. 189]: 
"Non si cerca la pace per fare la guerra, 
ma si fa la guerra per avere la pace.
Sii dunque pacifico nel guerreggiare, 
per indurre con la vittoria al bene della pace coloro che devi combattere".

4. Non tutti gli esercizi di guerra sono proibiti, 
ma solo quelli disordinati e pericolosi, 
che portano a uccidere e a depredare. 

Ora, presso gli antichi le esercitazioni di guerra erano scevre da questi pericoli: 
perciò esse venivano chiamate "preparazioni di armi", 
oppure "guerre incruente", 
come risulta da San Girolamo in una delle sue lettere.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, II-II, q. 40, a.1