sabato 4 giugno 2016

tra la potenza e l'atto: l'intenzionalità


Essendo compito della memoria 
conservare le immagini delle cose non attualmente percepite, 
la prima cosa da considerare è se le specie intelligibili 
si possano conservare in tal modo nell‘intelletto. 
Avicenna [De anima 5, 6] lo riteneva impossibile. 

Diceva infatti che ciò si verifica nella parte sensitiva 
per alcune potenze perché queste sono atti di organi corporei, 
nei quali si possono conservare delle immagini 
senza bisogno di una percezione attuale. 

Invece nell‘intelletto, che manca di un organo corporeo,
nulla esiste se non come realtà pensata. 

È quindi necessario che quell‘oggetto
la cui immagine è presente all‘intelligenza 
sia sempre attualmente conosciuto. 

Così dunque, secondo Avicenna, 
non appena uno cessa dall‘intellezione attuale di una cosa, 
subito scompare dal suo intelletto l‘immagine di essa; 

e se vuole pensarla di nuovo ha bisogno di rivolgersi all‘intelletto agente,
che egli riteneva fosse una sostanza separata, 
affinché da esso derivino le specie intelligibili nell‘intelletto possibile.

Dall‘esercizio poi e dall‘uso di rivolgersi all‘intelletto agente 
rimarrebbe nell‘intelletto possibile,
secondo lui, una certa attitudine a rivolgersi all‘intelletto agente, 
attitudine che egli riteneva fosse l‘abito della scienza. 

Secondo questa opinione, dunque, 
nulla si conserverebbe nella parte intellettiva 
che non sia attualmente pensato. 
Per cui in questo modo non si può 
ammettere la memoria nella parte intellettiva.


Una tale opinione però urta chiaramente contro le parole di Aristotele. 

Infatti egli scrive [De anima 3, 4] 
che quando l‘intelletto possibile «è divenuto le singole cose, 
è conoscente come colui che lo è in atto 
(il che avviene quando può passare all‘atto da se stesso); 

e tuttavia anche allora è in qualche modo in potenza, 
ma non come lo era prima di avere appreso o di avere scoperto».

Si afferma cioè che l‘intelletto possibile 
diviene le singole cose nel senso che
riceve le specie delle singole cose. 

Dal fatto dunque di ricevere le specie intelligibili 
l‘intelletto riceve la capacità di passare all‘atto quando vuole, 

ma non di essere sempre in atto, 
poiché anche allora è in certo modo in potenza, 
benché in maniera diversa da prima che avesse inteso: 

cioè come colui che avendo un abito conoscitivo 
è in potenza all‘atto della conoscenza.

Ma la teoria di Avicenna è contraria anche alla ragione. 

Infatti ciò che viene ricevuto in un soggetto 
è ricevuto secondo la natura del ricevente. 

Ora, l‘intelletto è di natura più stabile e permanente 
che non la materia dei corpi.

Se dunque la materia conserva le forme 
che riceve non solo quando attualmente opera per loro mezzo, 
ma anche quando ha cessato di operare, in maniera molto più immobile 
e permanente riceverà le specie intelligibili l‘intelletto, 
sia che le riceva attraverso i sensi, 
sia che queste gli vengano comunicate da un intelletto superiore. 

Perciò, se per memoria intendiamo 
la sola capacità di conservare le specie intenzionali, 
bisogna concludere che essa si trova anche nella parte intellettiva.

Se invece si riduce il concetto di memoria alla facoltà 
che ha per oggetto il passato in quanto passato, 
allora la memoria non esiste nella parte intellettiva,
ma solo in quella sensitiva, 
che è fatta per conoscere i singolari. 

Infatti il passato come tale, indicando l‘esistenza [di una cosa] 
in un determinato tempo, partecipa la natura dei singolari.

La memoria, in quanto capacità di conservare le specie intenzionali, 
non è comune a noi e alle bestie. 

Infatti le specie intenzionali non sono conservate 
nella sola parte sensitiva dell‘anima, 
ma piuttosto nel composto [di anima e corpo]: 
poiché la memoria è l‘atto di un organo.

L‘intelletto invece è capace di conservare esso stesso 
le specie intenzionali senza l‘aiuto di un organo corporeo. 

Perciò il Filosofo [De anima 3, 4] dice che 
«l‘anima è il luogo delle specie, non tutta però, ma l‘intelletto».

Il passato si può riferire a due termini, 
cioè all‘oggetto conosciuto e all‘atto della conoscenza. 

Ora, i due aspetti sono uniti per quanto riguarda la parte sensitiva, 
la quale percepisce un oggetto per il fatto che viene a subire 
una trasmutazione da parte di un oggetto sensibile presente: 

e infatti l‘animale ricorda simultaneamente 
di avere prima sentito nel passato, 
e di avere sentito un oggetto sensibile passato. 

 Invece per ciò che riguarda la parte intellettiva 
il passato come passato è soltanto accidentale, 
e propriamente non interessa dal punto di vista dell‘oggetto. 

Infatti l‘intelletto conosce l‘uomo in quanto uomo:
ora, per l‘uomo in quanto tale 
è una pura accidentalità l‘esistere 
nel presente, nel passato o nel futuro. 

Però dal punto di vista dell‘atto si può dire che il passato
può riguardare direttamente anche l‘intelletto, come il senso. 

Infatti l‘intendere della nostra anima è un atto particolare [e concreto] 
che esiste in questo o in quel tempo, 
ed è così che l‘intellezione di un uomo la diciamo 
di ora, di ieri o di domani. 

E ciò non ripugna alla natura dell‘intelligenza: 
poiché, sebbene tale intellezione sia un fatto particolare [e concreto], 
tuttavia è un atto immateriale, 
come si è detto sopra [q. 76, a. 1] parlando dell‘intelletto. 

Come quindi l‘intelletto intende se stesso, 
benché sia un intelletto particolare, 
così intende la propria intellezione, che è un atto particolare 
esistente nel passato, nel presente o nel futuro. 
Concludendo: 

nell‘intelletto si salva il concetto di memoria come conoscenza del passato 
in quanto l‘intelletto conosce di avere già prima conosciuto o pensato; 
non [si salva] invece come conoscenza del passato 
nelle sue condizioni concrete di tempo e di luogo. 

Qualche volta la specie intelligibile si trova solo potenzialmente nell‘intelletto: 
e allora si dice che l‘intelletto è in potenza. 

A volte invece si trova nell‘intelletto secondo tutta la perfezione dell‘atto: 
e allora l‘intelletto intende attualmente. 

Altre volte infine è come in uno stadio intermedio tra la potenza e l‘atto: 
e allora si dice che l‘intelletto ha una conoscenza abituale. 

E proprio in questa maniera l‘intelletto 
conserva le specie intenzionali, 
anche quando attualmente non le pensa.

San Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, I, q.79, a.6 

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